Il ministro della Transizione ecologica Cingolani lunedì ha dichiarato che “l’aumento del costo dell’energia rischia di avere un costo totale l’anno prossimo superiore all’intero pacchetto del Pnrr“. Il ministro poi ha dichiarato che “noi abbiamo preso un impegno molto pesante con la Commissione europea e abbiamo un debito che è oltre il 160%, quindi non possiamo permetterci di sbagliare”. Riassumendo: l’aumento dell’energia ha un costo per il sistema Paese colossale e l’Italia può sussidiare consumatori e imprese, a differenza di altri Paesi, solo fino a un certo punto perché ha troppo debito. L’aumento del costo dell’energia non è una grandinata estiva che rovina il raccolto, un evento imprevedibile a cui non si può porre rimedio. È vero che le tensioni geopolitiche si sono evolute peggio e più in fretta di quanto fosse lecito temere, ma la politica economica dovrebbe costruire un sistema in cui le imprese hanno energia abbondante, economica e affidabile. Questo è un obiettivo possibile nella misura in cui si sceglie il mix energetico giusto e si differenziano le fonti.



La politica economica italiana si basa sul presupposto che il Paese abbia i soldi per la transizione energetica e che famiglie, consumatori e imprese siano, in senso assoluto, favorevoli alla transizione. Nei fatti non è così. Le famiglie sono a favore della transizione solo nella misura in cui non causi una recessione e solo nella misura in cui non impatti la disponibilità di energia. Se queste due condizioni vengono meno, allora tutto il supporto politico viene meno a meno di una propaganda difficile da difendere all’infinito perché il resto del mondo e anche il resto d’Europa offre alternative. Risolvere la crisi energetica è infinitamente più difficile che approvare un bonus turismo o fare deficit perché l’energia non si stampa. Per l’Italia si tratterebbe di ricostruire un’offerta domestica rimangiandosi le norme che impedivano le estrazioni in mare e che, per inciso, hanno distrutto una filiera di componentisti che era fiorente e all’avanguardia. È un’operazione complessa sia dal punto di vista politico che industriale ed economico. 



La complessità politica deriva dal dover ammettere che molto di quello che è stato detto sulle rinnovabili semplicemente non è vero. Prendiamo due esempi su tutti. Si leggono articoli sulla produzione di energia eolica “offshore” della Germania che non fanno alcun cenno al fatto che la produzione può passare, letteralmente, da un giorno all’altro da 40GW a 5GW. Sono fluttuazioni insostenibili per un Paese industriale e che nessuna batteria potrà mai compensare per, almeno, la prossima generazione. Questo vuol dire tantissimi costi in più: per la rete, per il mantenimento di un sistema di backup, per il costo aziendale di non poter stimare energia e prezzi. Tralasciamo il fatto che per produrre una tonnellata di litio servono due milioni di litri d’acqua. Il secondo esempio è il decadimento delle batterie elettriche e della performance dei pannelli solari. Le stime di convenienza spesso sottovalutano sia il primo che il secondo aspetto. È per questo che Cina, Stati Uniti, India e così via continuano ad alimentarsi con fonti fossili e nucleare. Negli Stati americani che più hanno spinto sulla transizione si è arrivati al paradosso di acquistare generatori diesel di back-up come succede nei Paesi in via di sviluppo. A dimostrazione che il consumatore valuta la disponibilità molto di più di quanto si illuda la “politica”. 

La complessità economica deriva dalle condizioni che bisogna costruire perché i privati si rimettano a investire in capacità. Condizioni legali, di certezza delle regole, di processi burocratici da ricostruire da zero dopo un decennio in cui per perseguire la transizione si è deciso di non guardare in faccia nessuno. Occorrono capitali privati e un approccio governativo diametralmente opposto a quello degli ultimi dieci anni. Ieri, per esempio, i giornali inglesi davano conto degli sforzi del Governo Johnson, contro l’opposizione “green”, per dare nuove licenze di estrazione nel Mare del Nord; nonostante lo sviluppo dei campi eolici offshore. È la vittoria del realismo su qualsiasi ideologia o sogno perché la percentuale di consumatori inglesi disposta a fare il tifo per il green con il riscaldamento spento o da disoccupati, perché l’impresa ha chiuso, è molto più bassa di quanto si pensi.

La crisi energetica non è una grandinata. Si può risolvere a patto di cambiare politica e di resistere alla mala informazione che è stata propagandata da un paio di decenni. 

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