Questa settimana Exxon, la più grande società petrolifera occidentale, ha annunciato l’offerta, per un valore di circa 60 miliardi di dollari, sulla società americana “Pioneer” attiva nell’estrazione di idrocarburi negli Stati Uniti. È la più grande acquisizione di Exxon dalla fine degli anni ’90. Due giorni fa la società Orsted è crollata in borsa, ai minimi degli ultimi sei anni, dopo che l’amministrazione di New York ha deciso di non concedere agli sviluppatori del campo eolico offshore, fronte Manhattan, il riconoscimento dei maggiori costi; la decisione è stata presa per evitare che i consumatori dovessero pagare i maggiori costi dello sviluppo del campo con bollette insostenibili.



Fino a sei mesi fa qualsiasi annuncio di incremento degli investimenti negli idrocarburi sarebbe stato accolto negativamente da una schiera di investitori “ESG”. Oggi, invece, Exxon compra una società che produce petrolio di scisto, “shale oil”; è un tipo di produzione sicuramente impattante per l’ambiente. Darren Woods, Amministratore delegato di Exxon, apre la conferenza di presentazione dell’acquisizione spiegando che questa “rafforza la sicurezza energetica degli Stati Uniti”. Exxon avrebbe potuto fare scelte molto diverse dal punto di vista geografico e settoriale. Invece, decide, con un’acquisizione che non si vedeva da una generazione, di concentrarsi sulla produzione di casa in un’ottica di “energy security”.



Torniamo a Orsted. Per anni lo sviluppo delle rinnovabili, anche in Italia, è avvenuto con il contributo decisivo di generosi incentivi statali che venivano poi scaricati sulle bollette di tutti. Il sistema ha retto quando il costo di sviluppo delle rinnovabili era basso, perché per due decenni acciaio, componenti plastiche e non solo sono rimasti compressi, e quando l’impatto finanziario degli incentivi per i Governi scompariva all’interno di un mix energetico molto più ampio; in questo mix energetico dominava il gas che per due decenni è stato abbondante e a basso costo. Oggi lo sviluppo massiccio delle rinnovabili, ci ricorda la super democratica amministrazione di New York, invece rischia di ammazzare i consumatori con tariffe insostenibili. L’energia green si può avere ma costa molto cara. La realtà finanziaria emerge e spazza via i grafici con cui si stimavano costi progressivamente decrescenti per lo sviluppo delle rinnovabili. Senza petrolio e gas a costo economico anche le rinnovabili costano molto di più.



Sembra che il mondo stia cambiando paradigma: non più “energy green” ma “energy security”, non più energia verde a qualsiasi costo ma prima di ogni cosa energia sicura ed economica preferibilmente nel “giardino di casa”. La ragione di questo cambio di paradigma è sotto gli occhi di tutti: se i conflitti esplodono, allora i flussi energetici diventano tanto rischiosi quanto più sono distanti. Se la globalizzazione finisce e inizia un nuovo mondo, allora per sopravvivere occorre avere, come minimo, i costi energetici degli altri a meno di non pensare di rinchiudersi in un lager.

Gli Stati Uniti sembrano uscire dal “sogno green” e quelli in via di sviluppo non ci sono mai entrati. Rimane l’Europa a difendere ideologicamente la bandiera, convinta, nonostante il crollo dell’industria tedesca, di potersela permettere, senza nucleare ovviamente, mentre si intravede la seconda crisi energetica degli ultimi tre anni. Non le rimane, probabilmente, che inaugurare un nuovo paradigma: quello dell'”energy scarcity”; la scarsità imposta più o meno gentilmente a seconda delle circostanze.

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