Total, insieme all’austriaca Verbund, ha annunciato la firma di un accordo con la Tunisia che prevede la produzione di idrogeno verde nel Paese africano e poi la sua esportazione tramite gasdotto verso l’Europa. L’idrogeno sarebbe prodotto tramite elettrolizzatori alimentati da impianti solari ed eolici. Al momento si stima che il progetto possa essere completato nel 2030 anche se, come normale per progetti così complessi, qualche anno di ritardo sarebbe fisiologico. La decisione finale sull’investimento non arriverà prima del 2027.
L’idrogeno verde è la speranza europea per affrancarsi dagli idrocarburi essendo “tecnicamente” una soluzione; la sfida vera, in questo caso, è economica perché la produzione di idrogeno verde richiede grandi quantità di elettricità e l’idrogeno, a differenza del gas, è più difficile da trasportare. Produrre idrogeno verde da fonti rinnovabili richiede grandi disponibilità di sole e di vento e poi grandi spazi poco abitati. Questa è la ragione per cui le imprese europee guardano all’Africa che può offrire più ore di sole e molta meno opposizione ambientale di quanto non accada in Europa. Le rinnovabili, infatti, consumano terreno e sono molto più visibili delle fonti tradizionali. L’unico modo che avrebbe l’Europa per provare a produrre idrogeno “autarchico” e a costi accettabili è il nucleare, ma questa non è la soluzione dei prossimi dieci anni. Nemmeno i progetti in Africa, come ci ricorda anche l’ultimo accordo di Total, sono una soluzione per i prossimi dieci anni anche ammettendo che i sistemi economici europei siano in grado di sostenere i costi della sostituzione di un’intera infrastruttura esistente con una nuova; l’infrastruttura attuale è stata costruita in tre generazioni.
La Francia può far leva su una produzione nucleare che copre il 70% della domanda di energia elettrica. Questa specificità mette il Paese transalpino nella condizione di non avere l’urgenza di sostituire il gas e, nel caso, di doverlo fare a costi inferiori, e incentiva a prendere in considerazione progetti di lungo termine che privilegiano l’elettrificazione. Questa, ovviamente, non è la situazione dell’Italia che non ha il nucleare e non ce l’avrà, nemmeno nella migliore delle ipotesi, prima dei prossimi dieci anni. All’Italia rimarrebbero le rinnovabili, ma per avere uno sviluppo coerente con la sostituzione del gas o con la produzione di idrogeno verde servono investimenti colossali e una propensione della popolazione ad accettare pale eoliche e pannelli fotovoltaici che per ora non sembra esserci. In aggiunta ci sarebbe il tema dei costi per gli utenti.
Il corollario di queste diversità profonde dei sistemi energetici è nelle decisioni di politica internazionale. Una posizione comune su questo o su quel Paese mediorientale, per esempio, non ha gli stessi costi per tutti i Paesi membri dell’Ue e lo stesso si può dire per le scelte di politica industriale ed energetica. Le rinnovabili possono funzionare all’interno di un sistema che ha il nucleare, come dimostra il caso spagnolo, altrimenti i sistemi industriali sono condannati a una perdita di competitività difficile da neutralizzare. La produzione di idrogeno verde in Africa è, nella migliore delle ipotesi, una soluzione di medio-lungo periodo e comunque a costi ingenti. Una nuova fase di integrazione europea non può prescindere dalla diversità dei sistemi energetici e industriali a meno di non mettere in conto una divaricazione delle performance economiche difficile da governare.
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