Caro direttore,
il tour europeo del Presidente americano Joe Biden ha segnato l’avvio di una grande Restaurazione Occidentale. È impossibile prevedere oggi se avrà gli stessi sviluppi ed esiti di quella “doc” – post-napoleonica – decisa dal Congresso di Vienna nel 1815. È comunque già stato fatto notare un primo parallelo non banale. Sabato a Varsavia Biden, come allora il principe di Metternich, è parso isolare responsabilità e destino personale di Vladimir Putin, il Grande Disturbatore della Storia odierna come lo fu Napoleone due secoli fa in nome della “grandeur” francese figlia della Rivoluzione.
La Russia non è dunque esclusa in partenza dal ridisegno dell’Ordine Mondiale se saprà liberarsi di Putin: così come la Francia fu ammessa al tavolo dei negoziati di Vienna dopo che Napoleone fu definitivamente espulso di scena a Waterloo (a congresso già in corso, per opera delle forze militari di una coalizione internazionale).
La Grande Restaurazione si annuncia intanto già densa di impegni per chi si è visto improvvisamente obbligato a rimetterla sul tavolo della propria storia: anzitutto l’Europa. E non sembra affatto profilarsi come un “pranzo di gala”: uno dei tanti che punteggiarono i mesi di trattative diplomatiche a Vienna. Sembra forse più appropriato ripescare dal gergo maoista – il format della “rivoluzione culturale”: se non altro perché la Cina é oggi protagonista della storia come mai in passato; e la Pechino di Xi appare diversa da quella “para-occidentale” che il trentennio seguito alla caduta del Muro di Berlino (e a Tien-an-men) sembrava aver modellato, almeno agli occhi “occidentali”.
Stavolta almeno quattro “modernizzazioni” sembrano attendere l’Occidente, non la Cina post-maoista di Deng Xiaoping. E non è detto che siano “culturalmente” meno difficili da affrontare in Italia/Europa rispetto ai bombardamenti russi su Kharkiv e Mariupol, oppure alla fuga-esodo da parte di milioni di ucraini verso ovest.
La prima è la correzione in corsa della politica energetica. Sembra letteralmente ieri – il novembre scorso – quando il Cop26 di Glasgow si concluse in modo “deludente”: certamente per l’ambientalismo ideologico (o più banalmente mediatico, animato fino all’immediato pre-Covid dall’attivista “teen” Greta Thunberg). Ma neppure cinque mesi fa – con il prezzo del gas naturale già manipolato al rialzo dalla Russia – l’Occidente (l’Ue in modo specifico) sembrava aver consapevolezza minima dei rischi geopolitici insiti nella dipendenza dalle forniture russe. Né sembra un attenuante che già all’inizio di settembre – in un forum internazionale come quello di Cernobbio – il ministro italiano per la transizione energetica Roberto Cingolani ventilasse nell’agenda Recovery il “nucleare verde” (tuttora senza il via libera della Germania). Allora la prospettiva – oggi già quasi ridiventata obbligata – fu liquidata con fastidio in Italia da un fronte politico-culturale trasversale: lo stesso che ha bloccato finora le trivellazioni in Adriatico, i rigassificatori o l’importazione di commodities energetiche “politicamente scorrette” come quelle che si preannunciano dagli Usa, dal Qatar, dal Venezuela. E adesso?
Un secondo “fronte interno” di particolare delicatezza è quello del riarmo. Il Premier Mario Draghi ha annunciato l’aumento al 2% del Pil della spesa militare, finalizzata alla costruzione di un “defence compact” europeo, più volte rinviato. Draghi non ha fatto né più né meno che allinearsi alla svolta annunciata dal Cancelliere tedesco Olaf Scholz, in sintonia con la fermezza via via ribadita da Biden. Uno dei primi effetti “culturali” dell’impasse è stato il virtuale oscuramento – anche da parte del servizio pubblico televisivo – del forte dissenso di papa Francesco. Ma una specifica “culture war” sembra alle porte: su iniziativa di un fronte pacifista articolato e trasversale. Senza dimenticare che l’Azienda-Italia (e non solo Leonardo) potrebbe risultare – per una volta – in posizione di forza tecnologico-industriale nella nuova “fabbrica di difesa” nell’Ue.
Una terza incognita – sociale non meno che economica – riguarda l’accettazione progressiva dei gradi di sanzione-embargo già decretati verso Mosca. C’è solo da scegliere fra i (più che potenziali) motivi scatenanti di “guerre d’opinione”: le perdite miliardarie secche che sulla carta già stanno colpendo le due maggiori banche italiane piuttosto che la conferma strutturale delle “bollette alle stelle” unite ai tagli all’export in Russia già in vigore dal 2014; o la rinuncia forzata ai consumi e agli investimenti che dalla Russia hanno continuato a giungere in Italia lungo tutti i trent’anni seguiti alla caduta dell’Urss. In senso più lato: i “millennials” – per definizione sempre più maggioritari nella società europea – come reagiranno alla de-globalizzazione mirata al confine russo? Molto sembra dipendere dalla traiettoria che vorrà seguire la Cina: ormai “connessa” all’Euramerica molto più della Russia.
Una quarta sfida “culturale” posta dalla mossa di Putin e dalla reazione occidentale è quella politico-istituzionale ed è forse la più complessa. Nell’arco di un mese la “democrazia” sembra già cessata come modello indiscutibile della “fine della storia” a livello planetario, per tornare un'”opzione di civiltà”: una scelta di merito, caratterizzata da precisi impegni sullo scacchiere geo-politico. Non si tratta di una situazione nuova, neppure per l’Italia. Ma nel 1945 essa fu pressoché del tutto dettata dalle circostanze (l’esito della Seconda guerra mondiale e gli accordi di Yalta). Quasi ottant’anni dopo, la “sovranità” italiana è tornata tutt’altro che piena: ma lo stesso vale per la Germania e perfino per Paesi allora “vincitori” come Gran Bretagna e Francia. La stessa Ue sembra di fronte a un bivio obbligato: che comunque dovrà fare i conti con le democrazie elettorali nazionali (non diversamente, peraltro, da quanto avverrà negli stessi Usa, chiamati a rinnovare parte del Congresso al voto di “midterm” in autunno).
(Una specifica discontinuità – improvvisa e brusca – sta provocando i cattolici: non solo italiani, ma forse gli italiani in modo particolare. I quali, tuttavia, potranno contare – come sempre – sul magistero pastorale del vescovo di Roma).
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