Dopo il consueto mese di attesa, sono state pubblicate le motivazioni dietro alla condanna dei PM milanesi Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro accusati di ‘rifiuto d’atti d’ufficio’ per aver volontariamente nascosto alcuni elementi sfavorevoli alla loro stessa accusa nel noto processo Eni-Nigeria che avrebbe dovuto ricostruire l’ipotesi di corruzione internazionale operata dal gruppo energetico sul territorio africano: partendo proprio da qui, la tesi sostenuta dai due PM oggi condannati era stata smontata già nel primo grado di giudizio facendo cadere le accuse nei confronti di tutti gli indagati e la Procura generale aveva rinunciato – ora verrebbe da dire, coerentemente agli elementi raccolti – all’appello, facendola diventare effettiva.
Nel frattempo – però – erano emersi alcuni elementi di dubbio sulla conduzione delle indagini da parte di Spadaro e De Pasquale riferiti in particolare ad alcuni messaggi scovati dal sostituto procuratore Paolo Storari nel cellulare di Vincenzo Armanna – ovvero l’ex dipendente Eni che aveva dato il via alle indagini sulla corruzione – che ne avrebbero minato profondamente la credibilità facendo (di fatto) cadere l’intero impianto accusatorio dato che lo stesso Armanna fu collegato ai due principali teste dell’accusa.
Le motivazioni della condanna di De Pasquale e Spadaro: “Hanno ignorato gli elementi nocivi alla loro accusa”
Quelle stesse prove – secondo il Tribunale di Brescia che ha condannato i due PM – erano finite nelle mani di De Pasquale e Spadaro che avrebbero “chirurgicamente tralasciato i dati nocivi” al loro impianto accusatorio “tacendo deliberatamente l’esistenza di risultanza investigative in palese ed oggettivo conflitto” con la ricostruzione resa durante il processo Eni-Nigeria; il tutto peraltro “a dispetto delle pressanti esortazioni ricevute” da un collega magistrato in servizio nella Procura milanese: tutto questo – continua la corte bresciana nelle sue motivazioni – al fine di “giustificare (..) i carichi di lavoro inferiori” attribuiti all’ufficio di De Pasquale rendendolo con il maxi processo per corruzione “il fiore all’occhiello” della Procura di Milano.
Immediata (ed ovvia) la risposta di Massimo Dinoia, legale dei due imputati che – citato dal Fatto Quotidiano – ritiene “impossibile (..) giustificare giuridicamente la condanna” dei due PM dato che la motivazione odierna “ha fugacemente toccato soltanto alcuni temi” ignorando – per esempio – il fatto che “i documenti” in questione “non erano mai stati in loro possesso”; il tutto (anche qui, ovviamente) promettendo che la sentenza verrà impugnata davanti alla Corte d’Appello per “ristabilire la verità”.