Poche figure della letteratura classica si sono sapute rinnovare e adattare ai tempi e ai diversi target come quella di Sherlock Holmes, forse perché rispetto ad altri detective come Hercule Poirot ha da sempre avuto i germi della modernità, del futuro, della scienza e dell’eclettismo. E allora è buona l’idea di Netflix di portare quel tipo di intrattenimento a un target oggi attivissimo, quello delle adolescenti: Enola Holmes, tratto dal primo romanzo della serie di Nancy Springer, racconta della sorella di Sherlock, lasciata dai fratelli e dal padre morto sola con la madre e che della famiglia ha tanto l’acume intellettivo quanto il senso dell’avventura.
Per la società ha però un difetto: è una ragazza che non vuole conformarsi alle regole dell’Inghilterra di fine ‘800, non vuole essere beneducata ma libera, perciò mentre Sherlock e Mycroft cercano di badare a lei dopo l’improvvisa scomparsa della madre, Enola fugge e risolve il suo primo caso, quello del marchese scomparso.
Jack Thorne alla scrittura (in curriculum le serie Quelle materie oscure e The Eddy) e Harry Bradbeer (anche lui un esperto televisivo) alla regia per un’avventura dichiaratamente per teenager che al giallo leggero e avventuroso mescola il sottofondo “politico” ormai quasi obbligatorio. Ovvero temi e caratteri che vertono continuamente sull’anelito femminista e la gabbia patriarcale, con caratterizzazioni banali e didascaliche, pieno di lezioncine che non diventano racconto, come se stessimo ancora ai proclami e alle dichiarazioni e non si fosse già (in altri contesti, in altre opere) passati all’azione.
Anche perché poi, di fatto, il film punta semplicemente a ribaltare il paradigma maschilista, non a sovvertirlo o negarlo, facendo un semplice cambio di genere anziché una più complessa operazione sugli stereotipi di genere o di classe: basti pensare a come Enola si comporta col marchese, figura ridotta a una damigella in pericolo con cui la ragazza si comporta come ogni maschio ha fatto nel corso di secoli, imponendogli addirittura il look giusto (per non parlare dei risvolti politici di fondo, su cui è meglio sorvolare).
È un peccato perché questo aggiornamento di Piramide di paura (film di Barry Levinson in cui si raccontava del giovane Sherlock) ai modi della tv contemporanea è simpatico, discretamente realizzato e sa muoversi al cospetto del suo pubblico ideale per ritmo, narrazione dilatata e stirata ma abbastanza efficace, disinvoltura nel rileggere la mitologia di Conan Doyle e uso degli attori, soprattutto la protagonista Millie Bobby Brown che dopo l’exploit di Stranger Things è qui anche produttrice e assoluta mattatrice.
È un film vietato ai maggiori di 16 anni, che decide di comunicare solo al suo spettatore tipo e si disinteressa degli adulti, coerentemente con il carattere della protagonista, portando per esempio una ventata di sentimentalismo nell’asettica freddezza di Sherlock (Henry Cavill, un po’ fuori ruolo) e va bene così. Proprio per questo dispiace ancora di più che le cose giuste che vuole dire non riesca a dirle meglio, a renderle parte del gioco del film stesso.