In occasione dell’ottavo anniversario della scomparsa di  Enzo Jannacci pubblichiamo un estratto dell’introduzione del libro di Paolo Vites, “Enzo Jannacci,  canzoni che feriscono” (Caissa Italia Editore, 2019)

Nel 1968 avevo 6 anni e come tutti i bambini e gli adulti italiani di quel periodo non potei fare a meno di sentire, in rotazione continua sulle radio, il brano Vengo anch’io, no tu no. Mi piaceva, per quelle vocine buffe che il cantante faceva, per quella musichetta divertente, ma mi disturbava pure. Non capivo quell’immagine così strana del funerale, non potevo capire che la vita si risolve quasi sempre in un inganno perpetrato dal prossimo. Quando sei un bambino ogni cosa è pura. Ma capivo quel senso di rifiuto, quel «no tu no», che vivevo sulla mia pelle, in una famiglia dove rimanere sentirsi esclusi era la norma. Ho vissuto la mia infanzia nella solitudine totale, senza amici, ed è stata la musica a un certo punto, a liberarmi, a darmi uno spazio mio dove nessun altro poteva entrare, a suggerirmi che là fuori, se volevo, c’era un mondo da esplorare. Vengo anche io, no tu no, mi comunicava qualcosa che un bambino come me poteva percepire ma non certo capire. Decenni dopo quella canzone riapparve improvvisamente nella mia vita, quando le mie figlie erano bambine. Appena la sentirono per la prima volta uscire da un cd che avevo in macchina, cominciarono a chiedermela sempre e di cantarla tutti insieme nei nostri viaggi. «Papà canta no tu no» dicevano. A differenza di quando ero bambino, per loro era divertimento puro. Le canzoni parlano in modo diverso a persone diverse a secondo di quello che siamo. E noi siamo tutti diversi dall’altro.



Da esterofilo quale sono (musicalmente), ho snobbato per quasi tutta la mia vita le canzoni e gli autori italiani, a parte pochi di loro. Ho snobbato anche Jannacci, per quanto ovviamente avessi sentito nel corso degli anni tante sue canzoni. Poi un giorno è morto. Le immagini di quel funerale mi lasciarono totalmente interdetto. Lì, in quella chiesa e fuori della chiesa, c’era un popolo. C’erano star della musica e della televisione con lo sguardo perso, il pianto trattenuto a stento, sembrava non sapessero più dove andare, loro, le persone importanti. C’era Milano intera, anziani che non trattenevano le lacrime e giovani che anche loro che si sforzavano di capire. Cosa stava succedendo? Chi era veramente quell’uomo? Era come se Milano quel giorno si fosse svegliata sola e abbandonata. Da allora ho cominciato a indagare profondamente nella sua musica. Spesso mi sono ritratto: con la depressione di cui soffro già da solo, ascoltare quelle canzoni raddoppiava il mio male. Che tristezza sconfinata tutti questi perdenti ai quali non ne va bene una. Alle canzoni di Jannacci si adattano benissimo le parole di Lou Reed: «Non mi piace abbellire la realtà, non mi piace utilizzare il trucco per rendere le cose più gradevoli». Jannacci idealmente, sullo stesso tono, risponde che «è sulla vita che si imbastiscono le canzoni», mica sulle fantasie.



Altre volte la corrispondenza che scoprivo con il mio desiderio di significato, con la mia stessa vita, prendeva il sopravvento e mi trovavo a dire: ma chi è quest’uomo che sa parlare così bene di me stesso come nessun altro? In realtà Jannacci parlava di tutti, partendo sempre da se stesso. Nessuno può cantare di amore, di perdenti, di disperazione in modo credibile se quelle cose non le vive lui in prima persona. E se io mi sentivo come lui, questo voleva dire una cosa sola: il desiderio che abbiamo è dentro di tutti, solo che il più delle volte lo seppelliamo, lo annichiliamo, lo censuriamo perché vivere con questa domanda una vita intera è troppo faticoso. La società poi fa il resto, buttandoci addosso tonnellate di merda, di distrazioni idiote. Jannacci, in questo senso, dal leggendario verso «la televisiun la t’endormenta cume un cuiun» lo ha detto dozzine di volte in tantissime sue canzoni. Ha avuto la fortuna di vivere in tempi in cui la televisione era l’unica arma di distrazione di massa, chissà oggi con la Rete e i social network, dove questo essere «cujun» si è amplificato a dismisura cosa direbbe.



Il grande pianista Enrico Intra, amico di Enzo Jannacci, in una intervista rilasciata a Il Giornale ha detto che «ciò che mi proietta verso l’universo è la musica. (…) il musicista non ha bisogno di cose esterne, è proiettato direttamente altrove». Enzo Jannacci è sempre stato proiettato altrove.

Ora, dopo diversi anni, so cosa è che mi attira e mi distanzia allo stesso tempo dalle sue canzoni. La ferita nel cuore di cui lui ha sempre cantato: «Che non so di che qualità sia. So che è grande. È nata grande e non si chiude. Tanti fanno finta di non averla, tirano dritti. Li guardo, e mi viene da sentirmi male… Bisogna andarci dietro alla ferita, se no non se ne viene a capo. Bisogna volere bene alle ferite. Io ce l’ho da sempre, e non mi dispiace averla». Vorrei essere come lui, capace di amare la mia ferita.