Gaia Tortora, figlia di Enzo, il noto conduttore televisivo e giornalista ingiustamente carcerato con l’accusa di associazione a delinquere camorrista, ha rilasciato un intervista per il Giornale, raccontando l’inferno vissuto in quei lunghi 4 anni. Era il 17 giugno 1983 quando, alle 4 del mattino, suo padre venne condotto in arresto, in quello che secondo la figlia è stato “uno dei più clamorosi casi di malagiustizia che la storia italiana ricordi”.



“Io lo chiamo accanimento”, sostiene fermamente la figlia di Enzo Tortora, “perché, volendo, avrebbero potuto risolvere l’errore in poche ore (..) e invece lo hanno volutamente trascinato” in quella che definisce senza troppi giri di parole “discesa all’inferno”. Furono, racconta, “malagiustizia e mala-informazione (..) andate a braccetto per spolpare un essere umano e, di rifletto, quelli intorno a lui”. Ricorda che lei, il giorno in cui arrestarono Enzo Tortora, stava facendo l’esame di terza media, “mi giro e vedo mia sorella sulla porta. Pensavo che fosse successo qualcosa alla mamma, invece mi disse: ‘È papà, ma si chiarisce subito’. E invece”, racconta con una nota malinconica.



Gai Tortora: “Papà Enzo non era più in sé”

Quel subito, però, per Enzo Tortora si concretizzò in 7 mesi di carcere, 14 di domiciliari e 4 anni complessivi di battaglie legali. La figlia Gaia, cercando una spiegazione alla persecuzione, racconta di aver pensato che, essendo “la prima grande retata contro la Nuova camorra organizzata (..) doveva stare in piedi… Altrimenti è un problema, dopo che hai arrestato un personaggio così noto e popolare”. Ricordando che all’epoca il padre conduceva Portobello.

Tra tutti i colleghi di Enzo Tortora, la figlia Gaia ricorda che “Feltri fu l’unico a prendersi la briga di [sfogliare] il faldone del caso. Capì che qualcosa non tornava”, ma non poté fare comunque nulla di concreto. Una volta scagionato, quattro anni dopo l’arresto, tornò a Portobello, ma la figlia ricorda che “non era più lui. Si vedeva dallo sguardo, velato. Come a dire: sono qui, ma in realtà non ci sono più. Testa e cuore”, racconta ancora sul padre Enzo Tortora, “erano rivolti a quando era successo, al pensiero che anche una sola persona, incontrata per strada, potesse pensare male di lui“.