Tutti lo ricordano come una persona mite e un socialista unitario. Tratti di un uomo del passato. E tale era Guglielmo Epifani. Si è spento ieri dopo una breve malattia a 71 anni, molto giovane, visto come dopo oltre un anno di pandemia è cambiato il nostro concetto di vecchiaia. Non un ragazzino, ma un uomo che poteva dare ancora molto.
Epifani divenne funzionario della Cgil subito dopo l’università. La sua carriera nel sindacato seguì il percorso normale di ogni dirigente. L’esperienza da fare in una categoria (i tipografici), poi l’ingresso nelle strutture di vertice della confederazione.
La condizione dei socialisti nella Cgil è stata sempre quella di una componente di minoranza, molto rispettata, essenziale per poter dire che la Cgil non era il sindacato dei comunisti. Ma era una minoranza eterna. Riconosciuti e protetti, dovevano essere unitari e la loro diversità era essenziale per garantire il pluralismo interno. Nel complesso meccanismo che conduceva alla formazione dei gruppi dirigenti, i socialisti avevano diritto a ruoli di primo piano ma mai quelli di numeri uno, al massimo potevano aspirare a quello di segretario aggiunto. Mai, dalla sua fondazione, la Cgil aveva avuto un segretario generale socialista. E quando nel 2002 bisognò sostituire Cofferati divenne naturale rompere questa assurda tradizione con l’elezione di Epifani, il vice per antonomasia, ruolo ricoperto sin dalla segreteria di Bruno Trentin.
Epifani aveva conquistato il cuore della maggioranza fedele alla sinistra ex comunista quando aveva condotto, accanto a Cofferati, la dura battaglia contro la modifica dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Un crescendo, fino all’oceanica manifestazione del Circo Massimo del 23 marzo 2002, con oltre un milione di lavoratori giunti da tutta Italia.
In quella giornata era stata definitivamente sotterrata l’antica diffidenza che l’anima della maggioranza comunista covava nei confronti dei socialisti da circa vent’anni, da quando nel 1983 i socialisti tradirono sul taglio dei quattro punti di contingenza decretato dal governo Craxi.
Così Epifani divenne il segretario della Cgil negli anni difficili del secondo governo Berlusconi (2001-2005, ndr), poi accompagnò il nuovo governo Prodi fino alla caduta nel 2008, infine diresse il sindacato nelle acque agitate degli anni della “grande crisi”. Poi il testimone venne consegnato alla Camusso, entrambi accomunati dal fatto di essere il primo socialista e la prima donna a diventare segretari del grande sindacato italiano.
Entrato a pieno titolo nel gruppo dirigente nazionale del Pd, Epifani appoggiò Bersani nelle primarie del 2013 e stabilì con il gruppo dirigente uscito da quel congresso, e dal duro scontro con il giovane sindaco di Firenze, un rapporto stretto e di fiducia. Dopo il voto politico che sancì la non-vittoria di Bersani e le sue dimissioni, mentre Enrico Letta veniva chiamato a presiedere un nuovo governo di unità nazionale, a lui toccò fare il segretario di transizione del Pd. Dal maggio al dicembre 2013, quando poi Renzi si prese la sua rivincita.
Epifani era un candidato segretario perfetto per la maggioranza del partito ma volle in quell’occasione mantenere la parola data e rinunciò alla competizione. E così si ritrovò – ancora una volta nella sua vita – a far parte della minoranza. Una condizione che evidentemente era diventata intollerabile se in pochi anni passò dalla guida del partito al suo abbandono, decidendo di partecipare alla scissione guidata dagli ex comunisti Bersani, D’Alema e Speranza e alla fondazione di Articolo Uno.
Così, dopo qualche anno trascorso nella politica, Epifani è tornato a fare, nell’ultima parte della sua vita, quello che faceva all’inizio: il sindacalista. Cercando di parlare più spesso agli operai (come ai lavoratori napoletani della Whirlpool), dedicandosi alle questioni sociali (come l’analisi delle trasformazioni nel mondo del lavoro dopo industria 4.0), battendosi per la difesa di coloro che stanno rischiando il posto alla fine della crisi pandemica (come la delicata questione del blocco dei licenziamenti). Riannodando così quel filo rosso che ogni vero sindacalista porta dentro di sé e che serve a ricordargli come fare per stare dalla parte giusta: basta stare dalla parte dei più deboli.
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