La drammatica realtà attuale sconvolge le difese che il soggetto moderno porta a sua difesa per schivare i colpi della vita, vivendo nella trascuratezza. Una popolazione martoriata dal freddo, dal gelo e dalla sofferenza, per i bombardamenti russi senza sosta alle infrastrutture critiche, chiede la giusta pace e la fine dell’aggressione brutale. È sembrato di sentire, nella notte di Natale violata dagli attacchi disumani, il grido dell’anima ebraica che invoca: “Se tu squarciassi i cieli e scendessi!” (Is 63, 19).
Parliamo, perciò, di che cosa significano la nascita di Gesù e la sua Epifania con Lubomir Žák, studioso di fama internazionale, autore di numerosi saggi e pubblicazioni sulla teologia russa.
Pavel N. Evdokimov in Teologia della bellezza. L’arte dell’icona sottolinea il significato dell’Icona della Natività (sec. XVI) che si trova nella Galleria Treťjakov di Mosca. Ad un certo punto, cita lo Stichere delle Ore Grandi, quarto tono: “Ascolta, o cielo, porgi l’orecchio, o terra; che i tuoi fondamenti crollino, che la paura si impossessi degli inferi, perché il Creatore si rivela cuore della sua creazione”. In queste parole non c’è traccia di sentimentalismo e si percepisce il Mistero della Natività come grande e terribile. Che cosa possiamo imparare da questa esperienza della Natività dell’Oriente cristiano?
L’Oriente cristiano ama essere fedele alla tradizione dei primi secoli della cristianità, quando la festa di Natale coincideva con quella dell’Epifania. Il fatto che la nascita di Gesù sia da meditare primariamente come rivelazione del mistero di Dio, e, in Lui, del mistero di tutta la creazione, incluso l’essere umano, traspare abbondantemente da molte opere dei Padri greci e, per loro tramite, dai testi liturgici orientali e dall’arte iconografica. La frase: “il Creatore si rivela cuore della Sua creazione” è da interpretare in questa prospettiva. Essa poggia sulla convinzione che nel neonato bambino di Betlemme si rivela la Parola eterna del Padre-Creatore, per mezzo della quale è stato creato tutto l’universo, e quindi anche ogni essere umano. Ed è a partire da tale Parola che tutto da Lui è mantenuto in vita, o più precisamente, in essere. Il punto di contatto tra il Cielo e la Terra, in cui il Creatore è attivamente presente e ininterrottamente opera tramite la Sua Parola vivificante (da identificare con il Suo Parlare intradivino, trinitario) è nascosto nelle abissali profondità dell’essere di ogni creatura. Dio, con il Suo divino e sostanziale donare tramite la Parola, è infatti vicino a ogni Sua creatura, si lega a essa. In un certo senso si può dire che Egli si rivela cuore della Sua creatura. Le parole dell’Apostolo: “In Lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” non fanno che sottolineare la verità natalizia su questa intima e comunque reale congiunzione tra Dio e l’essere umano.
Cosa consegue da questa importante osservazione?
Di conseguenza, l’Oriente cristiano suggerisce di guardare il bambino come un uomo che, sì, avrà una sua vita e una sua storia, ma in cui si manifesta, sin dall’inizio, un qualcosa di universalmente umano. Ad esempio, vi si manifesta che la via della vera maturazione e realizzazione degli esseri umani sarà quella del rinnegamento di sé, dell’annientamento del proprio “io voglio”, persino, del proprio “io sono”. Perché solo così si può sperimentare la manifestazione vivificante e performante, in noi, del luminoso abisso dell’essere, abitato dal parlare di Dio, dalla Sua Parola; una manifestazione misteriosa ma assolutamente reale, che rinforza e raddrizza il tronco della personalità, ne pulisce e guarisce i rami più importanti, rendendoli fecondi. È in riferimento a quest’esperienza che Paolo scrisse le parole: “Non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
E le icone?
Le icone esprimono questa universale verità, manifestatasi in Gesù bambino, così, che depongono il neonato nella mangiatoia in forma di sepolcro. Certo, con ciò si allude alla sua futura morte, al sepolcro dove sarà depositato il corpo del Crocifisso; tuttavia il carattere epifanico, manifestativo del Natale dell’Oriente cristiano è molto più ampio. E fa riflettere.
Nel 2022 si sono ricordati i cento anni dalla nascita di don Giussani e i centoquaranta dalla nascita di Pavel A. Florenskij. Entrambi con la loro testimonianza hanno cambiato le vite di tanti giovani. Don Giussani, ferito dalla bellezza dell’Incarnazione, diceva: “Il Verbo di Dio, ovvero ciò di cui tutto consiste, si è fatto carne, perciò la bellezza s’è fatta carne, la bontà s’è fatta carne, la giustizia s’è fatta carne, l’amore, la vita, la verità s’è fatta carne: l’essere non sta in un iperuranio platonico, si è fatto carne, è uno tra noi”. Che cosa ci aiuta a scoprire Florenskij, a sua volta, del Mistero della nascita di Gesù?
Una prima risposta si può trovare nella predica che Florenskij, allora studente di teologia, tenne in una chiesetta il 7 gennaio 1907, giorno in cui i cristiani ortodossi celebrano il Natale. Rinuncia alle descrizioni delle scene legate alla nascita storica di Gesù a Betlemme, per cogliere il nucleo della festa: il Natale è l’Epifania, rivelazione della verità su chi siamo noi in quanto esseri umani. “C’è un grande cuore cherubico nella nostra anima, un nucleo angelico, ma esso è nascosto nel mistero ed è invisibile agli occhi della carne”, afferma Florenskij. E continua: “Noi siamo viandanti sulla terra, ma la nostra vera essenza è in cielo: infatti il cielo è là dove c’è lo Spirito. Sia lodato l’essere umano! Egli è di poco inferiore agli Angeli: di gloria e di onore è coronato! Ha ricevuto una tale autorità da poter usufruire persino dell’intelligenza angelica, poiché la misura dell’essere umano è tale quale quella dell’Angelo. L’essere umano è santo nell’intimo della sua anima; è santificato perché Dio lo rende tale, nonostante il peccato di cui è ricoperto”. Di conseguenza, Florenskij, pensando certamente alla sua stessa storia personale, alle sue esperienze di ricerca di un senso di vita più profondo, diventa esortativo ed esclama: “O, fratelli, se vedeste come siete meravigliosi, voi tutti! Non è forse lo Spirito Santo che abita in voi, che il sacerdote incensa quando vi asperge con il turibolo? Non è il trono del tempio interiore ad essere avvolto dall’incenso? E l’uomo non è forse l’icona di Dio? Proprio come nell’icona, oltre i colori e la tavola si nasconde la forza benefica di Dio, così oltre il corpo dell’uomo e oltre la sua anima peccatrice vive, nel tempio interiore, nella coscienza, lo Spirito Santo dai molti occhi”. Questa predica natalizia è molto propositiva, incoraggiante, probabilmente per sollevare i presenti che, come tutta la società russa, uscivano dal terrore di una situazione di diffusa violenza e terrore scoppiata con la rivoluzione del 1905, dopo che le truppe imperiali aprirono il fuoco su una manifestazione pacifica degli operai, lasciando sul terreno oltre duemila feriti e centinaia di morti. Occorreva reimparare a guardare l’altro, riscoprire la sua dignità: per avere la forza di perdonare i carnefici, e soprattutto per ridonare la speranza agli ultimi.
Una prima risposta, ha detto. E poi?
Una seconda risposta si trova nelle lettere che Florenskij scrisse ai familiari negli anni 1933-1937 dal gulag. Non che vi sia menzionato il Natale; i riferimenti ai temi religiosi erano vietati dalla direzione del gulag e la censura del campo sorvegliava attentamente l’attuazione del divieto. Mi riferisco piuttosto alle sue parole: “L’Incarnazione è il precetto fondamentale della vita: l’Incarnazione che è realizzare le proprie potenzialità nel mondo, accogliere in sé il mondo e formare la materia di sé. Solo con l’Incarnazione si può misurare la verità e il valore di sé stessi, altrimenti non è possibile neanche una critica obiettiva di sé”. Questo è un messaggio profondamente natalizio. Lo manda alla figlia Oľga, affinché capisca che l’autentica realizzazione della persona non consiste nelle strategie pelagiane di autoricreazione, autocostruzione o autoformazione. Occorre piuttosto desiderare che si incarni ciò che è già presente nella radice del cuore, ossia che si dia spazio, nella propria personalità e nella propria attività, a quanto già ora promana dalla Parola eterna che sta alla porta del cuore e bussa. Aprire significa attivare il processo di incarnazione. In questo modo, scrisse Florenskij prima di essere arrestato, “la nostra individualità lascerà il posto a una causa oggettivamente efficace: la Forza di Dio”.
In un suo recente intervento, in occasione degli 85 anni dal martirio di Florenskij, Natalino Valentini, studioso di filosofia russa, ha evidenziato la centrale importanza di uno scritto del “Leonardo da Vinci” russo, Il grido del sangue (1906). Qual è il logos di questo testo in relazione al Natale?
Il sermone è stato proclamato il 12 marzo 1906 nella cappella dell’Accademia teologica di Mosca. Poco dopo Florenskij è finito in carcere, in quanto critico del governo zarista, autore di una politica di violenta repressione. Florenskij prende posizione contro la pena capitale e, in particolare, contro la condanna a morte del tenente Šmidt, colpevole di aver appoggiato i marinai durante l’insurrezione di Sebastopoli del 1905. Dunque, non si tratta di un’omelia propriamente natalizia, ma di una forte denuncia che non risparmia nemmeno gli ecclesiastici, impauriti e perciò zitti di fronte ai detentori del potere secolare. Tuttavia, essa contiene anche un’idea natalizia di straordinaria attualità. Riguarda il perdono e la riconciliazione basati sul riconoscimento delle proprie colpe da parte di ogni cristiano. Egli scrive: “Le nostre preghiere sono ipocrite, fintanto che non ci pentiremo comunitariamente per le malefatte compiute, fintanto che con le molte panichide non riceveremo il perdono da parte di coloro che sono stati massacrati a causa della nostra complicità. Le nostre gerarchie tacciono, come se non avessero l’obbligo di smascherare i figli colpevoli della Chiesa, solo perché questi sono potenti. Non condanniamo le gerarchie per il silenzio: noi stessi siamo colpevoli del nostro silenzio, noi stessi ci siamo dimenticati del corpo di Cristo; così Cristo ci ha punito per mezzo dei pastori. Ma noi tutti, certamente pregheremo insistentemente per loro, affinché i loro cuori si infiammino di coraggio. O forse non sanno che ‘il buon pastore dà la sua vita per le sue pecore’? O pensano che noi pur avendo completamente rinnegato i comandamenti di Cristo, pur avendoli abbandonati, non saremo giudicati a causa di essi da Dio e forse condannati ai tormenti?” E aggiunge: “Questo e nessun altro dovrebbe essere il destino di un popolo che crede di appartenere a Cristo: lavorare incessantemente per la Sua opera, dare tutto, sopportare tutto e comunque, pur nella gioia della riconciliazione, di tanto in tanto arrossire e impallidire per la consapevolezza del proprio terribile e irrimediabile operato, del ricordo della propria vergogna”.
È una domanda che Le hanno fatto in tanti e tante volte, certamente. Perché Dio onnipotente è venuto tra noi come un bambino inerme e innocente in una periferia del mondo?
Sì, nascere come bambino in un Paese occupato dalla più grande potenza economica e militare di quei tempi, in un luogo del tutto insignificante dal punto di vista dell’importanza politica globale; nascere come membro di un popolo soggiogato, controllato, violentemente represso appena tentava di rialzare un po’ la testa, di un popolo lacerato da profonde divisioni sociali e ideologiche – tutto questo fa pensare a una precisa intenzione di Dio che non può non avere un significato universale. San Paolo lo ha fatto suo, esprimendolo con celebri parole: “Quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). In realtà, la sua esperienza non fa che confermare l’attuazione della promessa di Dio: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5). La storia di Dio iniziata a Betlemme e vissuta in mezzo a un “popolo perdente” è come una chiave musicale universale che da quel momento è stata apposta visibilmente all’inizio dei pentagrammi dei nostri spartiti sia individuali che collettivi. Allo stesso tempo fa riflettere il fatto che Dio è venuto in mezzo agli uomini tramite la nascita, divenendo cioè un bambino. Alla luce di questo straordinario avvenimento si può, credo, dire che anche la presenza di Dio nel nostro mondo aveva, ha e avrà le caratteristiche di un bambino appena nato. Nel senso che Egli si lascia dislocare, abbandonare inerme fuori delle mura del cuore umano, si lascia avvicinare dalla freddezza delle notti delle nostre storie personali e collettive, si espone alle nostre ambizioni “erodiane” di voler esercitare il controllo e il potere sugli altri. Dio si rende presente in questo modo, perché l’Amore non può costringere, spingere, deportare, ma solo attendere, affinché nei cuori, che sono liberi, nasca l’amore. Un amore animato dalla nostalgia dell’Eterno.
(Vincenzo Rizzo)
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