“Tutto come previsto. Erdogan aveva il 49% e si è preso un altro 3%. Credo non ci fossero dubbi: quando hai un risultato così al primo turno è come avere la vittoria in tasca”. Rony Hamaui, docente di Scienze bancarie, finanziarie e assicurative nell’Università Cattolica ed esperto di economia e finanza islamica, era tra coloro che avevano ipotizzato la vittoria di Erdogan già nei giorni precedenti al primo round delle elezioni. Ora il “sultano” si appresta a continuare il suo mandato per un altro lustro.



C’è da aspettarsi che, in politica economica come in quella estera, continuerà a comportarsi come prima: a fare, cioè, i suoi interessi, tenendo il piede in due scarpe, tra la Nato, di cui la Turchia fa parte, e la Russia che è il principale nemico dell’Alleanza atlantica, cercando di mantenere un ruolo di primo piano sulla questione migranti, nel Mediterraneo, in Siria. Una linea che ha fatto scuola e che altri in Medio oriente, come ad esempio l’Arabia Saudita, stanno adottando, delineando un mondo con alleanze meno definite rispetto a prima. La Turchia, intanto, sta attraversando un momento economico molto difficile, che preoccupa la finanza internazionale: un contesto nel quale si prospetta addirittura, sul lungo periodo, lo spauracchio di un default. Anche se il Paese è troppo importante nello scenario mondiale per farlo fallire.



Professore, che Turchia esce dalle urne e quali problemi deve affrontare per prima cosa?

La Turchia rimane spaccata in due. Chi votava Erdogan ha continuato a farlo, chi non lo votava ha continuato a non votarlo. Intanto, però, lui governerà per altri cinque anni. Il primo problema da affrontare è quello della crisi economica. I mercati erano già nervosi nei giorni scorsi, a causa della prevista vittoria di Erdogan al ballottaggio: la lira turca è scesa di nuovo in maniera significativa e anche tutti gli altri indicatori erano negativi. Ora c’è da attendersi che la moneta vada ancora giù, che ci sia un rialzo dei tassi sui titoli turchi. Insomma, la finanza internazionale boccia questo voto. Ma i turchi si sono espressi così.



Anche se i consensi a Erdogan si sono affievoliti rispetto al passato il ballottaggio è una vittoria della Turchia della tradizione?

Sì. Ha contato anche il fatto che la gente non si è fidata delle alternative, non le ha ritenute credibili, temendo che il Paese potesse cadere nel caos. Si sono talmente abituati a Erdogan che lo vedono come una parte integrante del panorama turco.

Kilicdaroglu rappresentava una coalizione troppo eterogenea?

Sì, era troppo frastagliata con un po’ di incongruenze all’interno, non è stata ritenuta un’alternativa credibile. Per questo i turchi hanno preferito seguire la vecchia strada piuttosto che provarne una nuova.

Il Paese vive un momento di crisi, con un’inflazione alle stelle: vista anche l’avversione dei mercati Erdogan sarà costretto a fare altre scelte?

Credo che non cambierà nella sostanza le sue politiche, che hanno portato tanta inflazione, tanta svalutazione della lira, però hanno continuato a far crescere la Turchia. Proseguirà forte di questo risultato. Il contesto internazionale lo aiuterà: i prezzi delle materie energetiche stanno diminuendo, così come i prezzi degli alimentari all’ingrosso. Ci potrebbe essere un contesto meno inflazionistico a livello mondiale che forse lo aiuterà ulteriormente. Certo, dall’altra parte c’è il fatto che i mercati finanziari non lo amano.

Erdogan non rischia di pagare cara questa “antipatia”? La Turchia potrebbe rischiare un default?

Può essere, ma la Turchia è un Paese così centrale nel panorama europeo, se non mondiale, che alla fine forse nessuno avrà interesse a prenderla di mira.

È troppo importante per farla fallire?

Sì, possiamo dire così: too big to fail.

La Von der Leyen ha ribadito l’importanza strategica della Turchia per l’Europa, Macron ha parlato di pace, Mediterraneo e futuro della Nato come sfide da affrontare con il presidente confermato. Come si porrà ora Erdogan con l’Europa?

Non cambierà nulla, continuerà a fare quello che ha fatto in questi ultimi anni: fino ad ora gli è andata discretamente bene, quindi, la sua partita la giocherà ancora così. Poi ha cinque anni davanti, non sono pochi. Anche con l’Europa seguiterà a giochicchiare, un po’ a restarle al fianco, un po’ ad allontanarsi: si è sempre mosso in questa maniera ambigua e ambivalente. Confermerà l’impegno a rafforzarsi dal punto di vista militare, continuerà a parlare con Putin e a essere dentro la Nato. Non credo che cambierà nulla.

In una dichiarazione dopo l’elezione ha detto: “La famiglia è sacra, strangoleremo chiunque osi toccarla” attaccando il mondo Lgbt. Un modo di porsi perentorio che rischia di allargare la spaccatura nel Paese, diviso tra un elettorato più tradizionalista e uno più attento ai cosiddetti diritti civili?

La Turchia è già spaccata e comunque la maggioranza è con lui. D’altra parte neanche gli avversari si sentono di contestare la legittimità del voto, contestano il regime, ma non il voto.

Rispetto a prima il consenso a Erdogan si è eroso: c’è il rischio che a lungo andare si eroda ulteriormente?

Il rischio c’è, ma ha altri cinque anni per fare quello che vuole. Possono succedere tante cose: questi, intanto, sono i giorni della festa per la vittoria elettorale.

Erdogan ha anche parlato della nascita del “secolo della Turchia”: potrà giocare un ruolo ancora più importante a livello mondiale e nella guerra tra Russia e Ucraina?

Sì e no. Può giocarsi qualche battaglia, come quella sul grano, favorendo un accordo per la commercializzazione di quello proveniente dall’Ucraina nonostante la guerra, ma non credo che abbia la forza per imporre nulla. Però è una persona scaltra, che si muove in base ai suoi interessi, cercando di mediare.

Un modo di fare, il suo, che ha fatto scuola?

Oggi sono in tanti a fare così, basti pensare all’Arabia Saudita e ai Paesi arabi. Sono diventati tutti Erdogan: un po’ filocinesi, un po’ filoamericani, un po’ filorussi. Purtroppo il Medio oriente è così.

È proprio diventato un modello di riferimento nella politica internazionale?

Non so se sia diventato un modello di riferimento. Certo, ad esempio, l’Arabia saudita sembra seguire questa linea: la Russia le ha proposto di entrare nel gruppo dei Brics finanziando la banca internazionale che, sotto l’egida cinese, si contrappone alla Banca mondiale e al Fondo monetario. Hanno bisogno che l’Arabia entri perché la Russia non riesce più a sostenere la sua quota. Lo scacchiere del Medio oriente è composito e anche dissidi che pensavamo molto radicati, come quelle tra sciiti e sunniti, si stanno ricomponendo. Chiamiamolo pragmatismo o cinismo politico.

Vuol dire che ognuno, come ha fatto Erdogan, cerca di muoversi secondo i suoi interessi?

Sì, cercano di barcamenarsi a destra e a sinistra. Questo è lo scenario, soprattutto mediorientale, ma non solo. Un mondo multipolare spinge ad andare in questa direzione.

Avremo, quindi, anche delle alleanze meno definite?

Assolutamente sì. È evidentissimo: Erdogan è il campione di questo modo di fare.

Alla fine, insomma, da Erdogan dobbiamo aspettarci esattamente quello che ha fatto finora. Ma quali sono i suoi punti deboli, a cosa deve fare maggiormente attenzione?

Forse il punto più debole è quello economico, ma credo che sia abbastanza furbo da non arrivare a un default: comunque ha bisogno anche di commerciare con l’Occidente.

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