L’attuale situazione internazionale assai complessa nella sua drammaticità pone infinite questioni, quasi sempre collegate le une con le altre, ma che richiedono anche qualche approfondimento specifico. Spesso proprio dal particolare concreto è possibile uno sguardo più chiaro sulla situazione.

Partiamo dall’attuale atteggiamento della Turchia su due fronti, Ucrania e Medio Oriente.



Da una parte il governo turco si propone come mediatore nelle controversie: mi pare, ad esempio, che sia stato decisivo il suo intervento nella questione del grano ucraino. D’altra parte a proposito di Gaza, pur riproponendosi come mediatore tra le parti, addirittura con tanto di telefonata di Erdogan a Papa Francesco, si è spinto a minacciare Israele di un intervento armato se Israele non fermerà le sue operazioni militari. Non solo: potrebbe esservi sfuggito che nella telefonata al Papa, Erdogan ha parlato della necessità di un’alleanza tra musulmani e cristiani come difesa dai piani degli ebrei.



Al di là della antistorica identificazione delle parti in conflitto secondo categorie religiose, risulta difficile comprendere come questo sia possibile nel rispetto del trattato NATO.

A questo proposito vale la pena rileggere l’art. 1 del trattato sottoscritto, ovviamente, anche dalla Turchia.

“Articolo 1. Le parti si impegnano, come stabilito nello Statuto delle Nazioni Unite, a comporre con mezzi pacifici qualsiasi controversia internazionale in cui potrebbero essere coinvolte, in modo che la pace e la sicurezza internazionali e la giustizia non vengano messe in pericolo, e ad astenersi nei loro rapporti internazionali dal ricorrere alla minaccia o all’uso della forza assolutamente incompatibile con gli scopi delle Nazioni Unite”.



Come è evidente, la minaccia di un intervento armato e di una pur improbabile invasione da parte della Turchia non è proprio in linea con lo spirito e le condizioni del Trattato.

Sempre a proposito dello statuto della NATO vale la pena oggi dare un’occhiata anche all’articolo 6, dove si definisce cosa sia un “attacco armato”: “per attacco armato contro una o più delle parti si intende un attacco armato: contro i territori di una di esse (…) oppure contro le forze, le navi, o gli aeromobili di una delle parti (…)”.

Attualmente, oltre all’invasione dell’Ucraina da parte della Russia, che si configura come un attacco armato di tipo tradizionale, nel caso della crisi mediorientale siamo di fronte ad attacchi armati che non prevedono necessariamente un’occupazione stabile di un territorio, ma che nondimeno appaiono molto, molto pesanti.

Hamas non vorrebbe occupare Israele, ma farlo scomparire del tutto, probabilmente – nelle sue intenzioni – con relativo nuovo olocausto o diaspora degli ebrei. Chi manifesta anche generosamente sulla scia dei massacri di Gaza dovrebbe rendersi conto delle conseguenze di un appoggio ad Hamas.

D’altra parte Israele ha invaso Gaza, ma non è pensabile che creda di poterla occupare stabilmente. Israele vuole eliminare un nemico politico, Hamas, e tutelarsi da eventuali ritorsioni, anche se i metodi usati non fanno presagire nulla di buono.

Nella guerra tra Israele e l’Iran, dove di per sé non esiste neppure un confine comune, appare evidente la nuova concezione di attacco o conflitto armato che sta per dominare la situazione internazionale. È una guerra a distanza, combattuta dall’alto o con attentati terroristici, che punta a distruggere l’avversario senza neanche l’obbligo e l’onere di doverlo occupare. Ovvero: io sto bene nel mio territorio, ma una volta che ti ho vinto militarmente combattendoti a distanza, mi accontento – si fa per dire – di piegarti ai miei interessi strategici ed economici.

In questo quadro l’impegno di chi desidera sinceramente la pace e la giustizia si fa più complesso.

Innanzitutto, occorre denunciare questa situazione, dove nessuno si dice in guerra, ma intanto la fa. In secondo luogo si devono aiutare le popolazioni coinvolte a liberarsi dal condizionamento nazionalistico di chi, magari a malincuore, non se la sente di opporsi agli errori del governo del proprio Paese. In questo senso l’esperienza storica della nostra Resistenza, non sempre a proposito invocata, ci insegna che non si è contro l’Italia se si combatte Mussolini. Anche se purtroppo i nuovi alleati, per vincere, non risparmiano con i bombardamenti le nostre città del Nord.

Inoltre bisogna essere attenti e critici nei confronti di quei fattori strategici ed economici che spesso sono all’origine dei conflitti.

Infine risulta ancora più evidente la necessità di un’azione educativa, e sarei tentato dire anche rieducativa, di tanti nostri giovani, portati da una parte all’indifferenza nei confronti degli altri e dall’altra al rischio di affidarsi emotivamente alla propaganda di chiunque punti ad un consenso interessato.

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