Ergastolo doveva essere ed ergastolo è stato. Ieri Filippo Turetta, reo confesso di omicidio, anzi femminicidio, è stato condannato al massimo della pena. Ma non tutto è andato secondo le previsioni di accusa e mass media. La Corte di assise ha accolto anche le tesi della difesa che aveva chiesto di escludere le circostanze aggravanti dello stalking e della crudeltà. La camera di consiglio è durata più del previsto, oltre cinque ore, e non deve essere stato facile convincere tutti i giudici (due togati e sei popolari) che Turetta, pur avendo inferto 70 coltellate alla povera ragazza, non ha “agito con crudeltà” (così recita la norma). In realtà la ragione dell’esclusione è puramente tecnica: secondo la giurisprudenza l’aggravante sussiste solo se le modalità della condotta rendono evidente la volontà del reo di infliggere alla vittima sofferenze inutili, gratuite e non collegabili alla sola volontà di causare la morte e probabilmente, dalla ricostruzione del fatto, tale volontà non è emersa. Quanto allo stalking occorre invece che le perduranti molestie abbiano obbligato la vittima a modificare le proprie abitudini di vita e anche questa circostanza probabilmente non è stata provata.
Ma è bastato il riconoscimento della premeditazione per determinare la condanna all’ergastolo e l’obiettivo della difesa, nel processo di appello, sarà quello di dimostrarne l’insussistenza o ottenere quelle attenuanti, oggi negate, che, bilanciando l’aggravante, consentirebbero a Turetta di evitare la pena perpetua, l’ergastolo.
Ergastolo, appunto. Richiesto a gran voce da tutta l’opinione pubblica. Non può non preoccupare l’enorme spazio riservato dai mass media anche a questo caso (come già in precedenza al processo Impagnatiello e al processo Pifferi). Non si contano i talk show che si sono susseguiti per mesi su tutte le reti e con la partecipazione di decine di pseudo-esperti. Tutte trasmissioni a senso unico, tutte impegnate a convincere che una sola può essere la sentenza: colpevole, ergastolo. Veri e propri processi paralleli, ma caratterizzati dalla presenza solo di accusatori, senza nemmeno l’ombra di un difensore. E così per settimane. E come non temere che anche i giudici, soprattutto quelli non professionali quali sono i giudici popolari, non ne restino condizionati?
E dopo la sentenza (quella vera) di oggi ecco i commenti dei soliti esperti: “ergastolo, giustizia è fatta. Le sentenze devono essere un esempio per tutti”.
Per fortuna, ieri una lezione l’ha data il papà di Giulia. “Abbiamo perso tutti come società, dobbiamo fare tutti di più” ha dichiarato Gino Cecchettin, richiesto di manifestare la propria soddisfazione per l’esito del processo. “Come essere umano mi sento sconfitto, come papà non è cambiato niente rispetto a ieri o un anno fa”. Al giornalista che gli faceva notare che questa sentenza era attesa da tutti gli italiani, ha risposto: “essere qui vuol dire aver perso tutti, come cittadini. Oggi siamo qui per un percorso legale. Non è questa la sede per onorare la memoria di Giulia. Speriamo di non trovarci ancora qua con un altro omicidio, il percorso di cambiamento si fa su altri banchi e in altre sedi. Dobbiamo combattere la violenza di genere con la prevenzione non con le pene”.
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