Forse un po’ vi sbagliate su Eric Clapton forse mi sbaglio anche io su di lui. Mi fido di B.B. King però. Ho una piccola canoa, l’ho chiamata B.B. King, perché il blues per me è mare e volevo affidarmi al re del Blues quando remavo. Mi fido di B.B. King quando diceva “non ho mai conosciuto un uomo migliore di Eric”.
Le conosciamo tutti le polemiche e le posizioni del chitarrista inglese, e per quanto io posso amarlo in maniera indissolubile non sono d’accordo con lui, come lo siamo in tanti del resto. Bene ribadire però che Clapton si è vaccinato: si è vaccinato. E dopo ha iniziato a buttare giù tutte le sue paure. Queste paure non vengono da ora, queste paure vengono da molto lontano. Dal suo passato. Ecco perché la gente non si rende conto quando dà vita a commenti del tipo “drogato, alcolizzato, etc etc” perché questi commenti danno proprio la misura della pochezza umana di chi li scrive, un non rispetto della vita altrui che raggiunge limiti insostenibili, a tratti. Clapton non si drogava per sport e non si stava facendo uccidere dall’alcol per divertimento. Nessuno è in grado di giudicare le sofferenze che ognuno di noi attraversa, nessuno di noi dovrebbe puntare il dito contro le sofferenze di Clapton e le sue innumerevoli debolezze e paure. Potreste anche dirgli che gli è morto un figlio, volato da un grattacielo di New York, a 4 anni. Potreste dirgli anche del fatto che sua madre non l’ha voluto, che il padre non si sa dove e cosa sia stato. Potreste dirgli che lui in passato è rimasto chiuso a casa sua per anni a drogarsi. Potreste anche dirgli che lui su questa terra è uno che ha avuto fortuna a restare in vita. Una serie di insulti che non c’entrano niente con il mondo della musica.
Non ho modo di giustificare nessuno e nemmeno ci provo a giustificare le idee di Clapton. Perché dovrei? Non sono le mie. Però penso che l’amore abbia connotazioni diverse, penso che amare qualcuno e rispettarlo per quello che ti ha dato la sua arte sia anche cercare di capire, per quanto ti possa fare arrabbiare. Però capire. Perché l’amore che alcuni artisti sono stati in grado di darci e continuano a darci non si accendono e spengono come gli interruttori della luce. Quello che ti dà la musica è solo e sempre ON!
Ritorno così al 1(ora) 33 del documentario “Life on 12bars” per far capire esattamente le paure di Clapton di allora da alcolizzato, drogato con le paure di ora da vaccinato. E il senso di queste paure è racchiuso in una sola parola: MORTE. Allora sosteneva di voler morire, che non amava la vita, che era sicuro che la sua fine sarebbe stata a breve. “I don’t like life” . E lì il suo senso di morte era talmente vivo che dava l’idea di quanto Clapton avesse paura di vivere, non avesse un motivo, voleva scegliere anche se poi è stato il suo immenso e non quantificabile talento a farlo sopravvivere e a scegliere per lui.
Così ora al contrario con la pandemia, con i vaccini, che a Clapton, con tutti i problemi di salute che ha, lo hanno fatto riscoprire debole ma da un altro lato desideroso di continuare a vivere. Timoroso di non poter più continuare a fare quello che lo mantiene in piedi da sempre. E allora il lockdown per lui credo sia stato motivo di annullamento totale della propria esistenza. La musica ha un valore inestimabile per lui, è tutto. E non c’entrano gli affetti familiari. La musica è un’altra questione. Riguarda tutto il resto, riguarda l’ombra e la luce di un artista, e in Clapton riguarda anche l’uomo. Privato di questo era come tornare a morire. E allora il non fidarsi completamente della scienza e di quello che lui chiama privazione di libertà da parte dei governi appare come una paura immane di sapere di non avere più tanto tempo e che metà della sua vita l’ha passata a ricercare la morte ed ora che è nel pieno della lucidità da anni, cerca in tutti i modi di allontanare questo spettro.
Psicologicamente per un artista che ha 76 anni e che metà del tempo lo ha sprecato volontariamente e non, nell’ammortizzare i dolori attraverso le droghe e l’autodistruzione, il non poter suonare più gli sarà sembrato come una fine che si avvicina rapidamente. Poi magari mi sbaglio io, magari si sbaglia Clapton, magari ci sbagliamo tutti. Magari a lui il vaccino ha dato qualcosa in più e non lo sa, magari il lockdown lo ha fatto riscoprire ancora più forte di quanto pensasse. E nonostante questo palazzo enorme che è Clapton, come può apparire a molti, in realtà ancora a 76 anni è un palazzo pieno di crepe, pieno di buchi tappati, pieno di vetri scuri all’alba e di forte luce di notte, un palazzo che potrebbe crollare da un momento all’altro. Questo Clapton lo sa, come sa benissimo che questo palazzo ha un qualcosa di solido, che nessuno o forse pochi artisti hanno ormai ovvero un talento che è sempre stato superiore a qualunque dolore, debolezza e paura. Un talento che è stato superiore anche alla morte. Così durante il lockdown così odiato da Eric, lui stesso ha ricostruito in una stanza, insieme ai suoi musicisti, Nathan East, Steve Gadd e Cris Stainton, tutto quello che poteva essere la forza, la voglia di andare avanti, registrando “The lady in the balcony, The lockdown sessions” . E nonostante sia un album di canzoni famosissime di Clapton e non, questo “ The lady in the balcony” non è un riciclo del dolore. Ma è un album che somma dolore di allora a quello che lui vive adesso.
Ai suoi musicisti, Steve Gadd alle percussioni che non toglie mai lo sguardo da Eric per seguire il tempo e i tempi, Nathan East perfezione fatta basso, e le tastiere semplicemente straordinarie di Stainton che aggiungono veramente un livello elevatissimo all’album. E poi c’è Clapton. Basterebbe solo stare attenti a come lui tiene ancora la chitarra. A come tiene gli occhi chiusi, a quanta intensità abbia ancora quando rivive le sue canzoni. A come muove le mani come fosse Caravaggio dove la tela assume le sembianze di corde di una chitarra. E’ un album dolcissimo come mai lo era stato prima Clapton. Nessuna tristezza ma un sentimento di dolcezza profondissima. La sua voce che è sempre stata considerata meno di tutto il resto assume qui un’importanza essenziale. Calma, pieno di pathos, profonda come non mai. La chiave da vecchio locale fumoso con cui ricanta e risuona “Nobody Loves you when you’re down and out” , come rende omaggio a Peter Green dei Fleetwood Mac, ricantando “Man of the world” e si capisce anche quanto questa canzone appartenga allo stesso Clapton .
Poi ci sono “Black Magic woman” , “Kerry”, “Layla”, “Key to the Highway”, “Got to my mojo working”, “Bell Bottom blues” che se vi state chiedendo se fosse ancora possibile che queste canzoni possano essere suonate ancora meglio di quanto ancora non lo siano state già in passato, beh basta ascoltare questo album e vi accorgerete che la risposta è Sì! Il talento immenso di Clapton fa in modo che questi grandi successi che in passato trasmettevano una sofferenza inimmaginabile, qui in “The lady in the balcony, The lockdown session” vengano suonati con una tenerezza estrema, come fossero la carezza di Clapton ai suoi dolori e al suo passato. Ecco, questo album è una carezza alla propria sofferenza. Ecco la carezza che avviene quando Clapton ripropone “River of Tears”, che personalmente credo sia il manifesto emozionale di Eric in questo disco, la chitarra raccoglie un tempo sospeso, in bilico, qualcosa che solo se se ne ha il coraggio è possibile riprendere: “I wish that I could hold you One more time to ease the pain. But my time’s run out and I got to go got to run away again”.
Ecco, vi accorgerete che il suono di questo album è il suono di un uomo che a 76 anni ha capito che non può più scappare da nessuna parte e che non è lui il padrone del suo tempo. Dicono che finita la registrazione di “Tears in Heaven” Clapton si sia messo una mano sul cuore, ringraziando i suoi musicisti…vedrete che ascoltandolo farete la stessa cosa anche voi.
Nemmeno un mese fa sono stata alla Royal Albert Hall. Fino a quel momento Londra mi appariva grigia, perfetta nei suoi movimenti ma grigia, non riuscivo quasi a capire come quel mondo potesse girare senza una buona tazza di caffè. Poi sono andata alla Royal, mi sono trovata lì di fronte e alle pareti e c’era un poster di Eric Clapton ed ho urlato il suo nome come se fosse il volto più familiare e vicino a me in tutto quel grigio. Mi sentivo di nuovo viva perché il potere della musica, anche solo il “sentirla” è questo: ti restituisce la vita anche quando pensi che non ci sia più niente, quando pensi di aver sbagliato tutto, quando pensi che fuori nessuno è tuo amico. Credo che questo sia il senso di “The lady in the balcony, The lockdown session”: riportare alla vita, in qualunque modo.