Il mondo del calcio è in lutto e piange Sven-Goran Eriksson, ex calciatore ma soprattutto ex allenatore, deceduto il 26 agosto circondato dall’affetto della sua famiglia, che con una nota diffusa sul web ha dato il triste annuncio. Solamente qualche mese fa l’allenatore svedese aveva scoperto un tumore inoperabile al pancreas e aveva affermato apertamente che gli sarebbe rimasto, nelle migliori delle ipotesi, un anno di vita.



Eriksson nasce a Sunne, in Svezia, nel 1948. Vive un’infanzia non semplicissima, avendo però come punto di riferimento mamma Ulla, una donna forte oltre che molto credente. Nella sua autobiografia (Sven, My story, 2013) scrive: “Mia madre ha fatto qualsiasi cosa per me. Io dovevo essere la sua rivincita per questa vita”.



Dopo una breve e non indimenticabile carriera da calciatore, un giovane Eriksson comincia la carriera da allenatore e iniziano ad emergere le sue qualità, la sua visione. Nel 1982 vince il Campionato svedese con il Goteborg, ma soprattutto la Coppa Uefa. L’Eriksson di questo primo periodo è un allenatore abbastanza rigido sulle sue idee di calcio ed è convinto che la squadra debba adattarsi ai suoi sistemi e non viceversa. Cambierà questo atteggiamento nel corso della sua carriera. In ogni caso Sven, che ha preso il patentino con una tesi sul 4-4-2 (modulo innovativo per l’epoca), si dimostra preparato sulla tattica, in un calcio in cui essa non aveva l’importanza che riveste ai giorni nostri. Le sue squadre giocano in modo brillante, sono ben organizzate e praticano un pressing alto, una vera novità per quel periodo.



Dopo aver vinto due campionati portoghesi con il Benfica, Dino Viola rimane colpito da Eriksson tanto da sfidare le regole allora in vigore in Italia per portarlo alla Roma. Il tecnico svedese accetta, dimostrando una qualità che sarà una costante nella sua carriera, quella cioè di sobbarcarsi importanti responsabilità. Il presidente della Roma, infatti, vuole affidargli il post Liedholm. L’esperienza giallorossa è segnata da una vittoria della Coppa Italia, ma soprattutto da una dolorosa sconfitta nell’aprile del 1986, quando una Roma già lanciata verso lo scudetto, dopo aver superato la Juventus, viene sconfitta in casa da un Lecce già retrocesso. Svennis (questo il suo nomignolo) avrà modo di rifarsi da questa sventura qualche anno dopo proprio nella capitale, sponda biancoceleste.

Nel frattempo, però, allena la Fiorentina, in cui cerca di valorizzare il talento meraviglioso di Roberto Baggio e soprattutto ritorna in Portogallo al Benfica con il quale sfiora la Coppa dei Campioni, sconfitto in finale dal Milan di Sacchi nel 1990. Intanto sul tecnico svedese ha messo gli occhi Paolo Mantovani, presidente della Sampdoria, che nel 1991 aveva vinto uno storico scudetto. Anche qui Eriksson si accolla una responsabilità non da poco: sostituire Boskov in una squadra che quell’estate aveva perso anche uno dei suoi grandi leader sul campo, Gianluca Vialli, volato alla Juventus. Dopo aver pianto per la dipartita del presidente (1993), una Samp fortissima gioca un calcio brillante e propositivo, ma non riuscirà a ripetere l’impresa di vincere lo scudetto, e così ad Eriksson (che comunque porterà a casa la sua seconda Coppa Italia nel 1994) verrà affibbiata la nomea di allenatore “bello ma non vincente”. In compenso, Eriksson a Genova allena alcuni giocatori che saranno fondamentali per i suoi successivi risultati: innanzitutto Roberto Mancini, ma anche Sinisa Mihajlovic e Juan Sebastián Verón.

Nel 1997 Eriksson, desideroso di fare qualcosa di ancora più importante nel campionato più bello del mondo, dopo aver praticamente chiuso con il Blackburn, torna sui suoi passi e accetta l’offerta di un altro grande presidente di una squadra italiana, Sergio Cragnotti, che lo vuole alla sua Lazio per costruire qualcosa di grande. Ed è qui che emergono le grandi doti di Eriksson come gestore di uomini. Egli saprà dirigere una squadra non solo fortissima tecnicamente ma anche decisamente in grado di “pensare” il calcio. Non è un caso che di quella squadra alcuni siano diventati grandi allenatori: si pensi a Simeone, Simone Inzaghi, allo stesso Mancini. L’esperienza alla Lazio sarà quella maggiormente ricca di successi: dopo la Coppa delle Coppe del 1999, arriverà lo storico scudetto del 2000, vinto rocambolescamente (e forse proprio per questo maggiormente ricco di soddisfazione) dopo la clamorosa caduta della Juve nel pantano di Perugia.

Dopo la Lazio, Eriksson accetta l’ennesima sfida: la prima volta sulla panchina di una Nazionale, l’Inghilterra dei fondatori del calcio, come primo allenatore non inglese. Non riuscirà nell’impresa di rompere la maledizione, che vede la nazionale inglese lontana da successi dal 1966, e successivamente ci saranno per lui esperienze poco significative. Fino all’annuncio del gennaio scorso e agli ultimi mesi trascorsi a salutare gli stadi e i tifosi che più lo hanno accompagnato durante la sua carriera.

Eriksson è stato un allenatore sempre pacato, mai sopra le righe, nonché una persona elegante. Sono rimasti nella memoria gli inchini, da vero signore, che faceva davanti alla curva laziale dopo i suoi successi.

Negli ultimi mesi non ha nascosto la sua malattia, l’ha affrontata a testa alta, da uomo. Ha affermato di aver avuto una vita bella, ed era grato per questo. In un documentario diffuso recentemente su Amazon Prime (intitolato semplicemente “Sven”) ha lasciato il suo testamento. Ha affermato che è normale che si abbia paura della morte, e che tuttavia essa fa parte della vita. Ma soprattutto ha esortato tutti a non dispiacersi per la sua morte, a sorridere: “Prendetevi cura di voi stessi e prendetevi cura della vostra vita. E vivetela”. Grazie, Mister.

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