Nel 1939 nella sola Asmara, capitale dell’Eritrea, vivevano 53mila italiani su una popolazione totale di 98mila abitanti. Oggi di italiani non ce ne sono più: a cercare di arrivare da noi in qualunque modo possibile sono gli eritrei, vittime di un regime che padre Mussie Zerai, eritreo candidato al premio Nobel per la Pace nel 2015, definisce “comunista e ateista di stampo maoista”. Non a caso l’Eritrea è soprannominata la “Nord Corea dell’Africa”.



Indipendente solo dal 1993, l’Eritrea è in mano a un regime retto sempre dalla stessa persona, Isaias Afewerki, che ha ridotto la popolazione in uno stato di schiavitù: basti pensare alla leva militare perpetua. Si può solo cercare di fuggire, come fece il sacerdote nel 1992, a 17 anni, fondando poi l’agenzia Habeshia, che si occupa del dramma dei migranti, soprattutto del suo paese. Da qualche giorno in Eritrea la situazione si è aggravata ulteriormente. Con un colpo di mano militare sono stati cacciati “dalle 29 cliniche e ospedali gestiti da religiosi cattolici – dice padre Zerai – tutto il personale medico e amministrativo e anche i malati”. Il motivo? “Il regime non ha mai tollerato l’azione della Chiesa, che è presente con opere sociali e che gode della credibilità e del rispetto di tutta la popolazione: musulmani, cristiani ortodossi e protestanti”.



Padre Zerai, che sta succedendo in Eritrea? Come mai questo colpo di mano? Una reazione del regime alle critiche da parte della Chiesa cattolica?

Il regime ha giustificato l’atto di forza facendo riferimento a una legge del 1995, secondo la quale le strutture sociali strategiche, come ospedali e scuole, devono essere gestite dallo Stato. Questa legge, però, non era mai stata applicata in precedenza. In un’intervista concessa a un giornale cattolico 20 anni fa, il presidente disse che la legge non era stata pensata per colpire la Chiesa e che le strutture già avviate e operanti nel rispetto delle direttive del governo e dei ministeri potevano continuare a lavorare pacificamente. E così è sempre stato.



Invece? Adesso cos’è cambiato?

Senza accusare la Chiesa di alcun motivo che potesse essere in contrasto con la legge, sono stati inviati reparti militari negli ospedali, abbattendo le porte, usando la forza e cacciando i dipendenti, i responsabili, il personale sanitario e anche i malati. Si tratta di strutture sanitarie che lo stesso regime aveva sempre definito di eccellenza.

Perché questa azione?

Non se ne capiscono i motivi, se non ripensando all’ideologia comunista, ateista, di stampo maoista di questo regime, che ha sempre mal tollerato le religioni.

In Eritrea, oltre ai cattolici, vivono musulmani e cristiani ortodossi, è vero?

I musulmani, che qui hanno una storia più che millenaria, non è stato possibile sradicarli e si sono avuti nei loro confronti, come verso le altre religioni, un forte fastidio e una tolleranza appena concessa.

La rabbia del regime si è dunque sfogata sulla Chiesa cattolica?

Sì, perché la Chiesa cattolica eritrea è indipendente e molto attiva nella società. Offre servizi come scuole, sanità, sostegno ai poveri, ai malati di Aids, e promuove la dignità della donna. Gode quindi di prestigio e credibilità nella società. Ciò che dice la Chiesa viene molto ascoltato. Basti pensare che quando vengono rese pubbliche le lettere dei vescovi vanno a ruba anche da parte di ortodossi, protestanti e musulmani. Questo dà fastidio.

Cosa succederà adesso? Si cercherà un dialogo con il regime?

La Chiesa non si è mai sottratta al dialogo, ma allo stesso tempo non è disposta a tacere, perché le sofferenze della popolazione non possono essere passate sotto silenzio. Ma soprattutto la Chiesa, prima di parlare, ha sempre agito concretamente con i fatti nel sociale.

Pensa che il regime restituirà gli ospedali alla Chiesa?

Ne dubito, perché il governo non ha mai restituito ciò che ha preso con la forza. Dicono che si è trattato di un passaggio di consegne come prevede la legge, ma è falso: non c’è stata alcuna richiesta, si sono presentati con le armi e hanno fatto irruzione.

Qualche giorno fa in Etiopia c’è stato un tentativo di colpo di Stato, di cui qualcuno ha accusato proprio l’Eritrea. Che cosa c’è di vero?

Non è chiaro, i canali diplomatici e i collegamenti aerei continuano a funzionare fra i due paesi, ma sono stati chiusi i confini di terra.

Come sono i rapporti con Addis Abeba, dopo l’accordo di pace del 1995?

Il dialogo tra i due paesi continua, il problema è che in Eritrea non si vede alcun risultato di questo dialogo, perché sempre di più si vanno restringendo gli spazi di libertà personale.

È vero che l’Eritrea ha concesso i suoi porti all’Arabia Saudita per attaccare lo Yemen?

Sì, è vero. L’Eritrea fa parte della coalizione cosiddetta anti-terrorismo insieme ai sauditi e agli Emirati Arabi Uniti. Questi ultimi hanno addirittura una base militare in Eritrea.

Intanto l’Occidente tace su quanto succede nel paese.

Questo è l’aspetto preoccupante: il silenzio dell’Unione Europea e della comunità internazionale. Siamo davanti alla violazione e limitazione della libertà religiosa, alla negazione del diritto alla salute, visto che hanno chiuso 29 tra ospedali e cliniche, togliendo così ai pazienti la libertà di scegliere dove potersi far curare. E il mondo tace.

L’Eritrea non interessa a nessuno?

Al contrario. La posizione geografica dell’Eritrea interessa a tutti: il regime, infatti, si è dimostrato molto abile nell’uscire dall’angolo in cui si trovava e nel proporsi all’attenzione mondiale, per vendersi al miglior offerente.

(Paolo Vites)