ESAME DI AVVOCATO: QUALE RIFORMA? Ancora una volta la percentuale di promossi all’esame di avvocato della Corte di Appello di Napoli è stata inferiore alla media nazionale del 40%, toccando appena il 32% dei partecipanti. In altri termini, oltre i due terzi dei candidati non è stato ritenuto idoneo e dovrà sostenere nuovamente la dura prova dei tre giorni di esame.
Si tratta di un dato allarmante, che mette in discussione l’intero sistema di accesso alla professione di avvocato vigente in Italia, spingendoci a pensare in modo serio alla necessità di profonde e radicali riforme. Infatti, credo di interpretare l’opinione di quasi tutti gli avvocati se dico che c’è qualcosa che non va in un sistema nel quale dopo tanti anni di studio e di pratica non si riesce ad accedere alla professione.
Vedersi esclusi dalla professione è come subire uno sgambetto non da poco, oggi più che mai. Infatti, da qualche anno, il praticantato non consente più di patrocinare cause autonomamente, ancorché per un contenzioso di importo modesto. Oggi, restare praticanti abilitati significa poter solo “esercitare l’attività di consulenza ed assistenza, sia giudiziale che stragiudiziale, in sostituzione esclusivamente del proprio dominus”.
Per come è organizzato oggi, l’esame di avvocato è una delle tante tessere del mosaico arabesco delle transizioni scuola-lavoro in Italia. Un esempio lampante dell’ipocrisia, della lentezza e dell’approssimazione che regnano sovrane. L’unico risultato è quello di rendere inutilmente complicato il percorso degli avvocati, fino a causare una totale perdita di fiducia in loro stessi.
Proverò qui ad assumere una posizione propositiva, mettendo da parte le polemiche di cui già sono pieni i media e concentrandomi sulle proposte di riforma. Enuncerò alcune proposte che sono state formulate in questi giorni, a partire da quella autorevolissima del ministro della Ricerca scientifica, Gaetano Manfredi, delle lauree abilitanti fino ad arrivare alla mia proposta specifica che, per carità, è solo una bozza che sottopongo alla riflessione comune per migliorarla.
Obiettivo di tutti è rendere il processo di transizione dall’università al mondo del lavoro più breve in un paese che, secondo un recente studio scientifico ha la transizione università-lavoro più lunga in Europa.
Con la laurea abilitante, non si cancellerebbe tanto l’esame di Stato, previsto dalla Costituzione, ma semmai si accorcerebbe il periodo del praticantato e lo si farebbe rientrare nell’alveo degli studi universitari. L’esame di Stato, allora, sarebbe svolto da tutti i laureati che hanno scelto il percorso professionale e hanno svolto la pratica durante gli ultimi anni di università.
In altri termini, esame di laurea ed esame di Stato sarebbero svolti in contemporanea al termine del percorso universitario. Il tradizionale esame di laurea sarebbe pur sempre svolto sulla base di una tesi di laurea, mentre quello di Stato sarebbe svolto sulla base del percorso di pratica forense, con la partecipazione del tutor di stage e degli ordini professionali alla discussione finale.
Questo sistema, che si potrebbe definire “duale”, poiché prevede lo svolgimento di attività on-the-job durante il periodo degli studi, anziché dopo come nel sistema sequenziale attuale, consentirebbe di ridurre gli steccati fra mondo dell’università e delle professioni.
Un’altra proposta, sempre all’ordine del giorno, parte dall’introduzione del numero programmato o chiuso nelle iscrizioni alla facoltà di Giurisprudenza. In pratica, i posti per l’accesso alla professione sarebbero contingentati a monte, cioè nel momento dell’iscrizione all’università, e sarebbero assegnati in base a un esame di accesso, un po’ come la laurea in medicina.
In altri termini, il percorso di laurea sarebbe diverso per chi vuol accedere alla libera professione e gli altri. Solo i giuristi che dovranno accedere alla professione saranno sottoposti a corsi nei quali lo studio delle materie procedurali è particolarmente importante. Gli altri studenti in giurisprudenza, destinati a trovare occupazione nelle imprese private o nelle pubbliche amministrazioni, potrebbero avere un percorso più ampio di studi e meno approfondito dal punto di vista della tecnica giuridica. Solo gli iscritti al percorso professionale potrebbero accedere alla pratica e poi all’esame di Stato. Gli altri no. Ma ciò consentirebbe di avere un esame di Stato in modalità più seria e che premi davvero il merito.
Un altro percorso potrebbe essere fondato su una rivalutazione della riforma del 3+2. Perché non sostituire l’attuale inutile e triste sistema degli esami di Stato con un percorso serio di formazione post lauream coinvolgendo l’università, gli ordini professionali e le scuole per le professioni legali? Se dobbiamo rendere l’accesso alla professione più difficile, almeno rendiamolo formativo.
Questo paese non pensa abbastanza ai percorsi post lauream. Uno di questi dovrebbe essere proprio collegato con l’accesso alle professioni, non solo quelle legali. Molti sostengono che l’esame deve essere difficile poiché vi sono già troppi avvocati. Ma, se la selezione deve essere fatta, che la si programmi per bene. Potrebbe essere utile tornare al 3+2. Il triennio dovrebbe essere per tutti e generalista, come era nello spirito originario della riforma universitaria, per l’accesso ai concorsi e al lavoro nelle imprese.
La specialistica, invece, dovrebbe essere per i pochi destinati a entrare nelle professioni legali (avvocato, magistrato, notaio), ma senza imporre alcun numero chiuso o programmato per lasciare ai giovani la libertà di scelta. L’accesso al biennio dovrebbe essere molto selettivo, però, a partire dal voto della triennale e da un test d’ingresso ben fatto.