Sta facendo molto clamore la storia delle tre ragazze che al Liceo classico “Foscarini” di Venezia si sono presentate al colloquio orale dell’esame di Stato, senza però parlare.

L’obiettivo era quello di esprimere così in modo plateale il dissenso di tutta la loro classe verso le valutazioni attribuite dal commissario esterno alla seconda prova scritta: troppo basse (le loro erano 7, 11 e 13 ventesimi; degli altri studenti non sappiamo).



Sapevano che potevano permettersi quel silenzio perché avrebbero comunque superato l’esame, visto il gruzzolo di crediti raccolto nei loro anni scolastici e nella prova di italiano, che permetteva di superare il fatidico 60. E così è stato. Inoltre alcune indiscrezioni dicono che già le studentesse avevano superato i test di ingresso alle università prescelte. Come, d’altra parte, succede alla maggioranza di tutti i loro coetanei.



Abbiamo quindi visto reazioni giornalistiche di ogni colore e tipo: paladine del dissenso a nome di tutti, bellissima e contraddittoria adolescenza che sa essere controcorrente, immature, incapacità di accettare una valutazione, mancanza di rispetto istituzionale, addirittura insulti. Altre reazioni sono quelle più vicine di compagni e genitori, che variano dall’approvazione alla richiesta di accesso agli atti dell’esame, da “hanno fatto bene” a “perché buttare via cinque anni così?”

Purtroppo nessuna di queste reazioni coglie nel segno. O meglio: bisogna distinguere almeno due elementi in questa storia.



Il primo riguarda la maturità (quella umana) di Linda e delle sue amiche Virginia e Lucrezia, nella quale possiamo intercettare tante sfumature, perché sono quelle del cuore dell’uomo: un “meccanismo” straordinario e bizzarro capace delle cose più grandi e positive fino a quelle più aberranti. Su questo punto si aprono certamente commenti e considerazioni come quelle accennate sopra, ma se ne possono aprire anche di più profonde: cosa ritieni sia un’ingiustizia? Quanto sei disposto a sacrificare per affermare un’idea? Come accogli le opinioni e i giudizi di chi è più grande di te? Che strada di consapevolezza apre l’errore, o un incidente nel percorso? Si dovrebbe cioè più porre domande che sentenziare, e mettersi in ascolto di quello che il cuore di questi ragazzi esprime.

Il secondo elemento riguarda invece l’esame di maturità, che non si può più chiamare così perché il suo nome corretto è “esame di Stato”. È qui che c’è forse il punto difficile da conoscere e da capire: come è fatto e come si realizza, a quali forze centripete e centrifughe è sottoposto. Tutto un altro tipo di meccanismo, fatto di numeri e anche di interpretazioni delle ordinanze, che può mettere in difficoltà persino a livello psicologico sia i docenti sia gli studenti. Unico rito collettivo oggi rimasto che sancirebbe l’accesso all’età adulta, una iniziazione con le sue prove e i suoi giudici.

Difficile restituire cosa si inneschi in questo meccanismo rituale, ma vanno avanzate almeno un paio di considerazioni.

La prima riguarda la valutazione delle prove d’esame e il coinvolgimento dei docenti che le valutano: cosa far pesare di più? Se la performance di quei tre giorni, allora si stigmatizzano e si pesano gli errori, se il percorso dei cinque anni allora gli errori possono essere considerati sviste e sono da ritenere meno pesanti. È il sempre difficile equilibrio da mantenere quando si valuta: fare attenzione peculiarmente alla prova, ma anche globalmente alla persona. E all’esame questo equilibrio si traduce in quello tra commissari esterni, che per forza di cose vedono la prova, e i commissari interni, che conoscono i loro studenti. Qui a volte possono ancora inserirsi elementi destabilizzanti che fanno saltare i piatti della bilancia (concorrenze tra scuole, attriti tra persone, vecchi torti, e altro) se non si crea un clima di lavoro buono tra docenti.

La seconda considerazione riguarda invece i punti disponibili da dare alle prove, 60 più 5 di integrazione. Tantissimi. Poco tempo fa, con le tre prove scritte valutate in quindicesimi, la sufficienza era definita in 10 punti, certamente per far tornare i conti generali, e fare in modo che l’esito finale non sfuggisse di mano per motivi aritmetici. D’altra parte dal 6 al 10 (valutazione globale della pagella di fine anno) ci sono cinque possibilità di voto, ma dal 60 al 100 ce ne sono 41 e la gamma dei risultati è ampissima.

Dunque?

Dunque non perdiamo l’occasione di revisionare il sistema dell’esame di Stato. Chiediamoci se c’è qualche altro modo di concludere la scuola superiore: se far pesare il percorso attribuendo ad esso più crediti, se tradurre i voti in fasce più sintetiche (come ad esempio succede nelle certificazioni linguistiche), se dare un maggior valore ad esperienze formative, se qualche spunto può arrivare guardando gli altri Paesi dove i sistemi variano, se tenere conto infine, dentro i punteggi, del superamento del test di ingresso all’università, auspicando quell’integrazione e connessione tra scuola e università che oggi – di fatto – non c’è.

Per concludere, sembra importante non solo una riflessione sul cuore e la maturità dei nostri ragazzi, ma anche sulla valutazione, sul punteggio e sul valore del nostro esame di fine superiori.

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