Con l’arrivo del mese di maggio e soprattutto con la presentazione del Documento del 15 maggio, studenti e docenti iniziano il conto alla rovescia, perché manca veramente poco alla fine dell’anno scolastico, ma soprattutto all’inizio dell’esame conclusivo del ciclo di studi della secondaria di secondo grado. Prima del 1998 questa prova, tanto attesa e temuta dai ragazzi, era denominata “esame di maturità”. In realtà questa espressione, che è stata sostituita con “esame di Stato” e che oggi usiamo ancora nel linguaggio colloquiale e informale, rende appieno il significato di questa prova, perché essa segna, o dovrebbe segnare, un momento di passaggio e soprattutto di sviluppo non solo nella formazione dei nostri allievi, ma anche nella loro crescita personale.
Gli scritti e il colloquio orale, secondo le indicazioni ministeriali, intendono accertare prevalentemente le competenze sviluppate dall’alunno, più che le conoscenze e le nozioni acquisite. In modo particolare, questo è richiesto nella prima prova, la prova di italiano. Tanti insegnanti si affannano a finire il “programma” di letteratura (un programma che tra l’altro non esiste più!), a soffocare gli alunni con pagine e pagine da studiare in modo da arrivare più preparati ad affrontare una delle tre tipologie previste all’esame scritto di italiano, non potendo sapere quale sarà l’autore, il testo e l’argomento scelti dal ministero e su cui verterà la prova scritta.
Sostengo ormai da anni che l’esame di italiano non lo si prepara durante l’ultimo anno e soprattutto non in modo nozionistico, seguendo un programma e accumulando concetti e pensieri da ripetere. Occorre insegnare ai ragazzi l’arte della lettura; a lezione è sempre più necessario educarli a diventare dei veri e propri lettori capaci di entrare nell’involucro delle parole, nell’ordito narrativo delle pagine di un libro d’autore, nelle maglie di un testo, e non solo letterario! Tale arte permette di non fermarsi al testo proposto, ma di intraprendere un confronto serrato con se stessi e con la propria vita, di trasportare magicamente il lettore verso altri orizzonti di senso, come amava affermare Elio Vittorini: “Scrivere è fede in una magia: che un aggettivo possa giungere dove non giunse, cercando la verità, la ragione; o che un avverbio possa recuperare il segreto che si è sottratto a ogni indagine” (E. Vittorini, Diario in pubblico). Un testo ha il suo orizzonte, il suo non-detto, le sue parole esprimono sempre di più di ciò che all’apparenza dichiarano, e al lettore tocca scoprirlo. A lezione, quindi, è necessario tornare a leggere i testi degli autori, magari in versione integrale; non troppi brani, ma alcuni ben selezionati dal docente, in modo da far comprendere il metodo di lettura.
Metodo, testualità ed essenzialità dovrebbero essere le tre parole chiave della lezione di letteratura italiana.
Tuttavia, Quintiliano nell’Istitutio oratoria, a proposito di educazione, sosteneva fermamente: “Non multa sed multum”, è conveniente, cioè, non studiare molte cose, ma poche e bene e soprattutto sapere perché le si apprende. Il detto si estende in genere non solo allo studio, ma a tutte le azioni umane, nelle quali la perfezione non sta nel verbo fare ma nell’avverbio bene.
Inoltre occorre dire che negli ultimi anni, dagli elaborati dell’esame di Stato e dal colloquio orale emerge sempre meno lo spirito critico dei candidati, che invece dovrebbe caratterizzare le loro trattazioni sull’argomento proposto. In generale, viene meno il confronto con il proprio vissuto, l’utilità di ciò che si è studiato. Dagli alunni viene privilegiata, invece, un’esposizione nozionistica sui diversi contenuti appresi nel corso degli anni. È questo, a mio avviso, l’esito, la conseguenza di un metodo di studio, di un atteggiamento a lezione, di un modo di porsi nello studio delle discipline che non ripaga, che non offre la giusta ricompensa e soprattutto non sviluppa la consapevolezza dei nostri giovani; non li apre al mondo, non li prepara ad affrontare le sfide della vita, non li fa diventare “cittadini attivi”.
Tra i criteri di valutazione della prova compare la capacità di utilizzo delle conoscenze: se gli studenti riescono a collegare e a paragonare ciò che hanno imparato. Viene, poi, riportata la capacità di argomentare in modo critico, personale e originale, rielaborando i contenuti acquisiti. Non manca, infine, la capacità di riflessione sulle esperienze personali in chiave di cittadinanza attiva. Per raggiungere tali obiettivi, in relazione al profilo di uscita, è indispensabile che cambi il modo di proporre la lezione in classe, l’approccio dei docenti alla disciplina. In letteratura italiana, ad esempio, non è importante soltanto aumentare le conoscenze degli autori, quanto imparare un metodo di lettura dei loro testi. Tenuto conto del profilo di uscita dei nostri allievi, è necessario che la lezione, negli anni che precedono l’esame, proponga un metodo, una strada che sostenga i ragazzi nella lettura di qualsiasi testo; è inoltre indispensabile che venga salvaguardato continuamente un confronto con l’attualità, qualunque argomento si affronti in classe. Se gli insegnanti si convinceranno sempre di più che il contenuto della loro disciplina, che anche il testo di Dante, Verga, Pirandello, Dostoevskij, Caproni, Pasolini educa l’umano, rende maggiormente consapevoli e responsabili i giovani nella società, allora cambierà la prospettiva delle loro lezioni e gli alunni comprenderanno che lo studio ha un’altra finalità e un altro gusto. Come sosteneva Susanna Tamaro in Alzare lo sguardo, il discrimine sta proprio nell’ “insegnare nozioni” o “suscitare passioni”:“[…]Accontentarsi di far ripetere a pappagallo le pagine dei libri di testo o far capire, invece, che lo studio della letteratura non è una scatola piena di dettagli noiosi ma qualcosa che parla alla profondità della nostra inquietudine e alle domande che ne scaturiscono.[…]”.
Gli studenti devono poter riscoprire la scuola come luogo di ricerca della verità, la disciplina come strumento per perseguirla e affermarla. La disciplina che si insegna, infatti, è una sorta di finestra da cui guardare il mondo con una particolare prospettiva; è lo sguardo sul mondo che il docente ha e che avverte più efficace per conoscere se stesso e la realtà.
L’insegnante è chiamato a risvegliare “forze superiori alle proprie”, come avrebbe affermato George Steiner in La lezione dei maestri: “[…] Tale è pure la vocazione del maestro. Non esiste una professione di maggior privilegio: risvegliare in un altro essere umano forze e sogni superiori alle proprie; indurre in altri l’amore per quello che amiamo: fare del proprio intimo presente il loro futuro: è una triplice avventura senza pari […]”.
Mai dimenticare che il presente della lezione può diventare il futuro dei nostri allievi.
Non siamo chiamati a chiudere gli interessi e le aspettative dei nostri ragazzi sulle pagine di un libro, ma a spalancare le loro inclinazioni verso la totalità del reale, ad accendere la speranza di diventare qualcuno e di poter contribuire al cambiamento e al miglioramento della società.
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