E così torneremo a scuola per l’esame di Stato. Usciremo dai nostri gusci, come lumache che tirano fuori testa e corna credendo passato il pericolo, e ci riapproprieremo delle aule scolastiche. Certo in condizioni molto diverse, osservando protocolli rigorosi, autocostringendoci a distanziamenti, impalcando surreali colloqui d’esame tra imbavagliati. Ma il gesto avrà un che di simbolico e non solo: sarà in effetti anche il riappropriarsi di una modalità di fare scuola che ci caratterizza e che ci è più congeniale.
Se una cosa questo strano secondo quadrimestre ha infatti detto chiaramente, è che la “scuola a distanza” non è il nostro modello, non ci piace, è un format che non si adatta a noi come comunità di insegnanti e studenti. Siamo abituati al contatto umano, non al diaframma di uno schermo; siamo abituati a guardarci in faccia, a percepire e vivere anche la difficoltà o la bellezza di un incontro in aula; siamo abituati alla fatica di alzarci la mattina, uscire, muoverci, ritornare. E pazienza se si dorme di meno. Siamo abituati all’avventura piena di stupore o di dolore dei rapporti umani.
Troppo facile estraniarsi ed essere multitasking con una videolezione! Troppo facile tutto: chattare mentre il professore spiega, mentre c’è un test o un compito o un’interrogazione, mentre si svolge un noiosissimo collegio docenti. Troppo facile esserci e non esserci contemporaneamente. Se è stato per un po’ salutare interrompere la catena dei rapporti umani con tutti i loro riti e impegni collettivi (può esserlo anche il sabato sera) e ritrovare nell’intimità del proprio isolamento se stessi, non siamo però fatti per un individualismo riempito e violentato dal web. Abbiamo bisogno di guardarci di nuovo in faccia, di condividere fisicamente la vita, di scontrarci o di esaltarci insieme.
Su questo è basata la nostra tradizione di scuola, per fortuna, anche se ovviamente non si può generalizzare, perché gli interpreti dello spartito sono molto vari. Non siamo la scuola dei test, delle crocette, delle prove a tempo. Quando noi insegnanti ci lamentiamo è perché ci tolgono il tempo scuola, cioè il tempo in cui “viviamo” letteralmente la lezione con i ragazzi. E i ragazzi con noi. E questa scuola passa per il “colloquio”, appunto, il dialogo. Almeno dovrebbe essere così. Quindi evviva il ritorno al colloquio “in presenza”, come abbiamo imparato a dire per distinguerlo da quello “a distanza”.
Presenza, distanza. Ci sei, non ci sei. È indubbio che nell’incontro umano tra delle persone qualcuno, con una parte di sé può stare altrove. Ma, appunto, con una parte di sé, non con tutto sé, come invece può tranquillamente avvenire davanti ad uno schermo. In “presenza” ci si guarda negli occhi e si è sicuri che s’incontrano gli occhi dell’altro. Invece, ci si guarda negli occhi davanti allo schermo e magari l’interlocutore ha interposto qualcosa d’altro senza che nemmeno ce ne accorgiamo. Questo, in fondo, è stato il vero motivo per cui siamo tutti terrorizzati dall’iniziare un nuovo anno scolastico basato sulla didattica a distanza.
E torniamo allora al colloquio d’esame, varato tra mille ritardi e ripensamenti, sulla base di un’ordinanza il cui contenuto, ritengo volutamente ambiguo, è stato letto e interpretato in vari modi, nemmeno fosse un passo controverso della Divina Commedia. Sarebbe interessante una ricerca sulle interpretazioni della varie direzioni didattiche o degli istituti scolastici. In fondo basterebbe leggere i documenti dei consigli di classe pubblicati sul web. Ne uscirebbe, è certo, una realtà confusa e difforme. Sono gli esami confusi in tempi di confusione da virus.
Con tutti questi limiti, con il loro colloquio tra imbavagliati, questi esami saranno però una bella opportunità, come sempre del resto. Certo, anche dicendo questo non si può generalizzare. Non si può né si deve dimenticare che per tanti della comunità scolastica il ritorno nelle aule sarà doloroso perché farà pensare a chi non c’è più, a chi è stato portato via dal virus. Né si ha il diritto di giudicare, vivendo in aree geografiche poco colpite, la paura di chi in certe Regioni teme davvero questa promiscuità e quindi non accetta l’idea del ritorno ad una pseudo normalità.
Ma sarà, dicevo, una bella opportunità, a patto che gli interpreti sappiano coglierla e vederne la bellezza. Riappropriarsi delle aule sarà un riappropriarsi della scuola, come la intendiamo e come la vogliamo davvero. Come desideriamo che riprenda col nuovo anno scolastico. E questo sentimento di sicuro ci troverà uniti, docenti e studenti, ci farà più vicini, seppur distanziati dai protocolli e imbavagliati dalle mascherine.