“Non abbiate paura!” non è solo una delle esortazioni più note del pontificato di Giovanni Paolo II. L’ha ripetuta qualche giorno fa, in versione aggiornata (“Non abbiate paura di non farcela”) il ministro dell’Istruzione, Patrizio Bianchi, rivolgendosi agli studenti che fra un centinaio di giorni saranno chiamati all’esame di maturità. Un invito eccessivamente paternalistico perché, nell’impegno profuso anno dopo anno dai suoi predecessori affinché l’esame fosse il più possibile semplice e non creasse problemi (specialmente quelli rappresentati dai ricorsi amministrativi per bocciature o addirittura promozioni con punteggi considerati troppo bassi), la maturità ha finito col diventare una sorta di pietra d’inciampo, un noioso contrattempo, una fastidiosa seccatura e nulla più nel passaggio tra scuola superiore e università o mondo del lavoro.
Bene ha fatto Anna Maria Bellesia a ricordare da queste colonne la percentuale dei promossi fra 2018 e 2021, costantemente distante dal 100% solo per un innocuo “zero virgola” e col massimo storico del 99,8% toccato giusto l’anno scorso, in omaggio alla convinzione popolare che la pandemia aveva “impedito” ai nostri ragazzi di fare di più e ai docenti di promuovere meno. Un excursus facilmente verificabile via internet su dati ministeriali ci mostra che quasi un secolo fa, nel 1923, i promossi erano invece appena il 25% e che nel 1960, alla vigilia della media inferiore obbligatoria introdotta un triennio più tardi, le percentuali si erano quasi invertite grazie al 28% di ripetenti, crollati al 4% nel 1999.
Lungi da me l’idea di associare tout court bassa quota di promossi con alta qualità della scuola. Non può essere così, fosse solo per il fatto che l’istruzione di cent’anni fa teneva in scarso conto la formazione della persona a tutto vantaggio dell’informazione nozionistica (anche se le due cose possono ben procedere a braccetto) e chiudeva le porte in faccia al figlio dell’operaio. Ma lo stesso discorso dovrebbe valere se ribaltassimo i termini: da una promozione di massa non può di sicuro discendere una scuola che funziona. Vale il paragone – scusate l’azzardo – con qualsiasi merce offerta a troppo buon mercato così come a prezzi stellari: tanto nell’uno quanto nell’altro caso c’è puzza d’imbroglio.
Merito va riconosciuto all’attuale ministro di aver tenuto, tutto sommato, la barra dritta contro una richiesta studentesca (di quale e quanta parte degli studenti, come scritto altra volta, rimane un mistero) semplicemente ridicola nella pretesa di ridurre l’esame ad una burletta fatta di un generico colloquio orale e niente più. Ma dubito che il suo auspicio affinché esso torni alla “serietà” (usiamo il termine con tutte le precauzioni possibili) pre-pandemica possa cogliere nel segno. Per ragioni sotto gli occhi di tutti.
Giusto poco prima che scoppiasse la pandemia, una ricerca su “Scuola, Università, Impresa” promossa dalla Liuc di Castellanza (Varese) asseriva che “il 51 per cento degli studenti intervistati non ha letto di sua scelta alcun libro di saggistica durante i cinque anni delle scuole superiori”. Né le cose andavano meglio se dalla saggistica si passava alla narrativa. “Siamo diventati schiavi del tecnicismo, mentre l’antica Grecia era padrona della tecnica – scriveva sul Corriere.it nello stesso periodo Roberto Vecchioni, che oltre ad essere cantautore ha smesso da pochi anni le vesti di professore di latino e greco al liceo –. La cultura classica ci rende liberi. Non si può costruire il quinto piano di una casa senza quelli inferiori”.
Del resto, è noto che chi nelle aziende seleziona le domande di lavoro dei neomaturati chiede non soltanto competenze tecniche e relazionali, ma addirittura – pensate un po’ – di elaborazione del pensiero e capacità di scrittura in lingua italiana. Ecco perché attribuire la miseria di 15 punti su 100 alla prima prova dell’esame di maturità e 10 alla seconda prova (che, ad eccezione degli indirizzi artistici e professionali dove è di carattere pratico, implica comunque una padronanza linguistica se si vuole intendere ed esprimere un concetto in qualsivoglia disciplina), così come fanno le ordinanze firmate pochi giorni fa dal ministro, non cambia la sostanza delle cose: siamo di fronte ad un esame che non fa più paura a nessuno perché sostanzialmente innocuo.
Si dirà che rispecchia – e non potrebbe essere altrimenti – la società del fare e dell’avere invece che dell’essere e del dare. Vero. Talmente vero che rilancio ancora una volta una mia modesta proposta al Parlamento: eliminiamo il valore legale del titolo di studio, che con le premesse sopra ricordate mantiene un valore soltanto costituzionale, scarsamente spendibile sul mercato. Eviteremmo così la replica stanca e senza senso di un rito più che datato. E lasciamo al mercato stesso il compito di estrarre gli studenti più adatti a questo o quel compito dal novero (allora sì del 100%) di coloro che si sono diplomati.
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