L’ultima invenzione sono il Pia e il Pai. Si tratta di acronimi gemelli che incrementano la burocrazia scolastica e inneggiano alla forma più che alla sostanza. Il primo è il Piano per l’integrazione degli apprendimenti e il secondo significa Piano di apprendimento individualizzato; entrambi sono compilati dai docenti durante gli scrutini finali delle classi intermedie delle superiori.



Al tempo della promozione generalizzata per la pandemia il ministero dell’Istruzione ha pensato bene di risolvere la situazione degli studenti con insufficienze tramite il comma 6 dell’articolo 5 dell’ordinanza 11 del 16 maggio scorso, che recita: “Nei casi in cui i docenti del consiglio di classe non siano in possesso di alcun elemento valutativo relativo all’alunno, per cause non imputabili alle difficoltà legate alla disponibilità di apparecchiature tecnologiche ovvero alla connettività di rete (…) il consiglio di classe, con motivazione espressa all’unanimità, può non ammetterlo alla classe successiva”. In pratica, il testo ministeriale intende dire che si può fermare uno studente solo se non ha alcuna valutazione durante tutto l’anno, con un voto espresso all’unanimità.



Una situazione rarissima, che di fatto ha introdotto il 6 politico targato Lucia Azzolina per tutti e che ha escluso dalla discussione finale tutte quelle situazioni intermedie, con studenti dal profitto anche gravemente insufficiente e con una scarsa (ma non inesistente) frequenza nella didattica a distanza.

Per riequilibrare questa generale situazione assolutoria il ministero ha imposto il citato Pai, con cui si trasmettono al prossimo anno tutte le carenze didattiche di quello in corso. E così un allievo poco meritevole si troverà ad affrontare il prossimo anno scolastico con 5, 7, 10 discipline in rosso e con penalità. Una procedura più adeguata ai campionati di calcio che alla scuola, e poco realistica, perché scarica agli anni successivi le difficoltà del 2020. Una misura pilatesca, che rimanda a domani le difficoltà dell’oggi.



In effetti sono in molti a c2hiedersi come faranno gli studenti a seguire con successo le discipline dell’anno prossimo se non sono riusciti a superare quelle di quest’anno. Si introduce di soppiatto la cancellazione del merito, un’occasione ghiotta per chi ha sempre desiderato una scuola dell’inclusività, dell’uguaglianza delle opportunità formative per tutti, del successo formativo senza fatica.

Un paradosso che tuttavia non sembra piovuto dal cielo. Per effetto della pandemia, il ministero dell’Istruzione ha infatti avuto paura di far valutare le conoscenze e le competenze degli studenti in modo adeguato, pur con i dovuti adeguamenti alla situazione dettata dalla diffusione del Covid-19. Secondo gli esperti era necessario evitare di essere inseguiti dai ricorsi presso i tribunali amministrativi intentati dalle famiglie dei bocciati, introducendo così tante deroghe (Dl 22/2020) tali da garantire la promozione a tutti.

Di pari passo alla “scuola di carta” sta nascendo una neolingua. Un lessico paraburocratico che rivela come l’istruzione italiana si stia allontanando sempre più dalla realtà, trasformandosi in un ambiente in cui conta sempre meno la relazione umana, educativa, l’acquisizione delle conoscenze e l’ampliamento delle competenze in cui prevale un contesto di procedure. Tutto è a posto se il piano viene attuato, se il documento viene redatto in forma corretta, se la forma è rispettata.

Un bell’esempio emerge da una nota di un dirigente scolastico lombardo, indirizzata ai docenti in vista degli scrutini di fine anno 2020 e riguardante gli allievi con disturbi specifici da apprendimento. “Per gli alunni con disabilità certificata, con Disturbi Specifici di Apprendimento certificati o per gli alunni con Bisogni Educativi Speciali non certificati che siano stati destinatari di specifico Pdp la valutazione deve essere coerente con il Pei o il Pdp opportunamente predisposto (ed eventualmente riadattato a seguito della situazione di emergenza vissuta). Ove necessario il Pai integra il Pei o il Pdp, rispettivamente, nei casi esaminati”. Meglio non tediare i lettori nell’esegesi del testo, ma è bene che si sappia come la scuola italiana, sin da quella dell’infanzia, ha preso questa rotta, accentuata dal distanziamento sociale e dalla didattica a distanza. Se manca l’umano, prevale la forma.

La paura del ricorso domina anche tra i docenti. Spesso le valutazioni vengono aggiustate perché “non vorrai mica prenderti un ricorso”. Così accade che, se a uno studente mancano dei punti per raggiungere la fascia di credito scolastico superiore, i docenti fanno a gara per premiare i loro pupilli e alzano i voti per far passare la media finale da 6,7 ad esempio a 7,1 (si scatta quando si ha una media del 7,1, 8,1 eccetera).

“Nella scuola italiana” dice un docente di lettere marchigiano “per perdere un anno bisogna metterci impegno” e negli scrutini si cominciano a discutere i casi critici, quando presentano da cinque-sei materie insufficienti in su. Eccetto quest’anno, la prassi ordinaria fa sì che i cinque si portino al sei, un quattro diventa sei essendo una disciplina terminale (non presente l’anno successivo) e così il giudizio sospeso si fissa su due, massimo tre materie negative.

Agli esami di Stato, il convitato di pietra è il Tar. I presidenti e commissari non vogliono scocciature e soprattutto non hanno alcuna intenzione di essere riconvocati a settembre per riaprire la documentazione e soprattutto nominare e pagarsi un legale di fiducia. Non hanno tutti i torti, perché nella scuola italiana nessuno vuole sentirsi eroe. Stare coi frati a zappare l’orto è un obbligo. Se dunque nel 2019 la media di promossi all’esame di Stato è stata del 99,7 % (ammessi il 96,1% degli scrutinati), l’esame 2020 sembra un’occasione fortunata e si prevede un’approssimazione molto vicina al 100%.

Quale presidente di commissione sarà così pazzo da mettersi a bocciare, quando tutti i candidati sono stati ammessi d’ufficio e i compagni delle classi inferiori promossi ope legis? Molto prevedibili i salti mortali dei commissari d’esame per concedere il diploma a quegli studenti ammessi con crediti molto bassi e che avranno bisogno di aiuti consistenti all’orale per permettere loro di arrivare al fatidico 60/100.

Per concludere, è però necessario essere realisti sino in fondo e non dimenticare la vera questione. Questa uniformità al ribasso, questo formalismo imperante sono il vero problema della comunità educante del Belpaese, per cui in pochi sanno assumersi le proprie responsabilità, il rigore culturale e morale sembra lasciare il passo e lo scetticismo diventa il faro da seguire. La ferita del nichilismo sta lì davanti a tutti e le soluzioni non sono dietro l’angolo. Ma per iniziare a rendersene conto sarà pur necessario iniziare a parlarne, dalle aule scolastiche agli Stati generali di Villa Pamphili.