Dopo un periodo di silenzio, la legge 56/2024 in vigore dal 1 maggio, immediatamente valida senza regolamento attuativo, prevede di inserire i risultati finali della prova Invalsi di ultimo anno delle superiori nella cosiddetta piattaforma Unica alla voce Curriculum dello studente accanto al voto di maturità. È la fine, una volta tanto positiva, di una lunga storia. Accompagnata naturalmente dagli alti lai dei soliti che gridano all’etichettamento, all’indottrinamento, alla fine delle libertà (di essere analfabeti?) come da solito copione.
È noto che a partire dall’inizio degli anni duemila le prove Invalsi non hanno avuto vita facile, anche se nessun partito ha avuto il coraggio di proporne l’abolizione, pur dopo averlo promesso nei comizi elettorali. Come è avvenuto peraltro in alcune zone del Paese anche in quest’ultimo caso. A livello internazionale questo tipo di prove è ormai di uso comune ed allontanarsi platealmente da un uso europeo ed occidentale avrebbe segnalato eccessivamente le peculiarità italiane.
Ma se le prove degli anni intermedi (II e V elementare, II superiore) scorrono via in modo sostanzialmente indolore, soprattutto dopo che le scuole hanno avuto la possibilità di non esporle nel RAV e dopo la sostanziale cancellazione della Valutazione esterna delle scuole, le prove negli anni terminali dei percorsi (III media e V superiore) hanno avuto vita travagliata, a causa della maggiore delicatezza del loro posizionamento.
Prendiamo la prova Invalsi in terza media. Per un certo periodo i risultati delle prove Invalsi sono andati a far parte del punteggio del giudizio finale. Le associazioni di insegnanti e presidi si sono sempre opposte, per una questione di principio e di immagine: un vulnus al potere giudicatorio assoluto della scuola. Anche se il giudizio che dal punteggio deriva non determina le scelte dei percorsi scolastici successivi, diversamente da quanto avviene in altri Paesi occidentali, ad esempio in Francia, dove ha carattere obbligatorio. In realtà non si è mai capito bene quanto su un tema come questo, così come su altri temi, le opinioni di queste associazioni rappresentino effettivamente quelle di insegnanti e presidi nel loro insieme. Peraltro ricerche nel merito, anche pubblicamente presentate, dimostravano che sostanzialmente i giudizi della scuola non venivano variati, salvo che per i livelli di eccellenza. Livelli ai quali può capitare che un giudizio complessivo sull’allievo tenga in conto anche fattori più ampi di quelli relativi alle aree analizzate da Invalsi. Ma comunque, alla fine, la prova Invalsi di terza media è stata tolta dal corpo “giudicante” dell’esame e scorre ad esso parallela.
Le attuali polemiche relative al voto numerico dimostrano del resto quale sia il clima in questioni di valutazione nel mondo dei pedagogisti, che ha un’egemonia ideologica maggiore nella scuola primaria piuttosto che nella scuola secondaria. C’è chi ritiene lesivo dei diritti umani l’utilizzo di termini che indichino una netta insufficienza, chi evoca sfracelli psicologici nei casi di valutazioni negative, c’è chi teme attacchi d’ansia insuperabili nei casi della deprecata “valutazione sommativa” cioè di numeri o aggettivi definitori. Mentre la cosiddetta valutazione formativa, cioè in corso d’opera e finalizzata ad indicare pregi e limiti a fini di miglioramento, viene in contrapposizione esaltata. Come se le due cose non dovessero e non potessero essere assolutamente complementari! La pedagogia italiana è diventata l’esaltazione del Paese dei Balocchi, ove nulla di minimamente sfidante o – Dio guardi – doloroso deve penetrare.
La questione delle prove Invalsi all’esame di Stato è stata anche più problematica. Per importanti ragioni di contenuto: scarsi punti di riferimento autorevoli a livello internazionale, ovviamente differenziati punti di approdo attesi nelle competenze di base nei diversi percorsi scolastici. Ma il problema principale è sempre stato quello dell’esame di terza media: dentro o, non potendo farne a meno, fuori? Alla fine fu fuori, per alcuni un approdo, per altri una necessaria transizione. Non era finita: obbligatorie o no? I contrari puntavano a che non solo non contassero per il voto d’esame, ma anche che gli allievi non fossero tenuti a sostenerla per accedere all’esame, contando evidentemente su una diserzione di massa. Una scommessa al ribasso persa: i maturandi hanno sostenuto la prova – su pc, con una somministrazione individuale, in un certo arco di tempo – in massa, arrivando a percentuali superiori al 95%. E percentuali sempre crescenti hanno iniziato a scaricarne i risultati individualmente e riservatamente, anche se per il momento non vi era alcun possibile utilizzo né valore istituzionale.
Nel frattempo però andava avanti un altro fenomeno, probabilmente alla radice dell’attuale proposta nella norma del PNRR. Grazie alla raccolta dati cominciata all’inizio degli anni duemila, prima a livello volontario attraverso il software Conchiglia – sempre a cura di Invalsi – poi a livello obbligatorio e generalizzato, si aveva un’immagine attendibile delle votazioni dell’esame. Incredibile che si sia dovuto attendere tanto. E da allora, costantemente, la classifica delle Regioni italiane lascia perplessi. Le Regioni stabilmente in testa alle prove Invalsi (si alternano Lombardia e Veneto) sono le ultime nei voti con lode ottenuti, mentre le ultime nelle prove sono in testa ai voti con lode (si alternano qui Calabria, Campania, Puglia). Gli ultimi saranno i primi, dice il detto evangelico. Alcuni ottimisti ritenevano che l’evidenza di questo fenomeno lo avrebbe eliminato: ingenui.
Ma perché tutto questo? Non sembra ragion sufficiente il piccolo premio in denaro istituito nei primi anni duemila dal ministro Fioroni e tuttora mantenuto in nome del merito (?!). Mentre i privati guardano alla scuola e all’università di provenienza prima che al numero del voto. A parte la soddisfazione personale, la ragion sufficiente sembrano le tabelle dei punteggi allegate ai bandi pubblici. Il famoso e sempre evocato valore legale del titolo di studio esiste solo nella misura in cui la Costituzione riserva l’accesso ai posti pubblici a titolari di titoli di studio (senza peraltro specificarne il livello). Per tutto il resto nessuna norma obbliga nessun datore di lavoro, neanche pubblico, e nessuna università ad utilizzare i diversi voti della maturità per attribuire diversi punteggi nelle tabelle allegate ai bandi. Sarebbe questo forse il modo più semplice per disinnescare il problema.
Quello ora ipotizzato, cioè di rendere pubblico ed evidente il risultato delle prove Invalsi accanto a quello della maturità, è altrettanto se non più efficace. Ma è una storia vecchia. Circa 10 anni fa si tenne all’allora MIUR una riunione di consultazione delle associazioni per sentirne il parere nel merito di cosa fare dei risultati Invalsi di V superiore: niente, come poi si fece? o metterli sul retro? o metterli in allegato? non sfugga la differenza sottesa alle due ultime ipotesi. Le associazioni favorevoli comunque ad una loro valorizzazione erano in netta minoranza. Poi arrivò l’ondata populista. Sembra che questa volta, come si poteva temere, nessuna mano maliziosa sia entrata all’opera in sede di emendamento.
Nelle cose della scuola italiana la pazienza e lo scorrere del tempo sembrano essere l’unico modo. In questi giorni pare che, dopo una illuminante uscita dello psicologo Recalcati, cominci a circolare il dubbio che per rinsaldare e rimotivare la compagine docente italiana, oltre a miglioramenti salariali a pioggia, forse è il caso di cominciare a pensare alla costruzione di quello che in gergo viene chiamato middle management. Alla buon ora! Se ne discute da almeno trent’anni ed un ministro ci ha perso il ministero. Ma con questo metodo non si rischia di arrivare troppo tardi?
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