Prendiamone atto come pregevole tentativo di uscire dalla palude: nell’informare ieri i sindacati che il prossimo esame di maturità (inizio il 22 giugno) tornerà a incardinarsi su due prove scritte, com’era prima della pandemia, il ministro dell’Istruzione Patrizio Bianchi ha precisato: “È un progressivo ritorno alla normalità”.
In effetti, dopo due anni di esami-farsa (molto più di quanto lo siano stati negli ultimi due o tre decenni) imperniati su tesine e orali precostituiti che puzzavano di scopiazzatura – se non di vero e proprio copia-incolla – lontano un miglio, i due scritti (uno di italiano, l’altro inerente una disciplina di indirizzo, cui si aggiunge il colloquio proposto dalla commissione interna con argomenti di educazione civica e di alternanza scuola-lavoro) parevano ai più il minimo inderogabile.
Tuttavia non illudiamoci: sotto il vestito, niente. O quasi. Ci spiegheremo fra poco, intanto registriamo un fatto: non era trascorsa un’ora dai primi lanci Ansa, che la Rete degli Studenti (ma chi è stato accalappiato in questa rete, chi sono i pesci finiti dentro, che tipo di rappresentanza possono vantare?) già minacciava a mezzo stampa: “Non si tiene conto degli ultimi tre anni (ma non erano due? ndr). Così non ci stiamo”. E passava agli avvertimenti sibillini: “Se il ministero non ci convoca (non si sa in base a quale diritto-dovere dovrebbe farlo, ndr) non possiamo evitare di mobilitarci”.
Cioè: dopo la (giusta) mobilitazione contro la didattica on line, dopo quella distribuita a pioggia qua e là contro le aule lasciate al freddo (siamo sicuri?) e le risorse alla scuola privata (continuano a chiamarla così, ma si riferiscono alla non statale, che è altra cosa), veri e propri mantra di ogni anno scolastico, dopo i cortei contro le regole dell’alternanza scuola-lavoro (qui il discorso si farebbe lungo) sfociate negli scontri con la polizia, ecco la paventata mobilitazione contro un pur tenue, annacquato, slavato ritorno ad una maturità decente. Se nel Sessantotto gli universitari (ma anche i liceali) gridavano agli esami di gruppo e al 6 politico, i degni figli di allora (ma col telefonino da 700 euro in tasca) gridano all’esame libero. Meglio: al non esame. Tutti promossi e arrivederci.
Che poi non hanno proprio tutti i torti: sappiamo fin d’ora – statistiche alla mano – che i promossi all’esame conclusivo del ciclo di studi (questa dovrebbe essere la dizione esatta) dell’anno scolastico 2021-22 veleggeranno tra il 99,7 e il 99,8 per cento, così come nel recente passato, tuttavia con ulteriori possibilità di “miglioramento”.
Dunque, perché sottoporsi all’inutile e, passateci il termine, ridicolo esame di giugno? Be’, almeno per fornire il percorso quinquennale di una parvenza di serietà, oltre che per assolvere ad un preciso dettato costituzionale (non è, la Costituzione, un altro punto di riferimento cui tutti ci appelliamo nei casi più diversi?).
Sennonché c’è di peggio. “La prima prova scritta di italiano, che sarà predisposta su base nazionale, proporrà sette tracce con tre diverse tipologie: analisi e interpretazione del testo letterario, analisi e produzione di un testo argomentativo, riflessione critica di carattere espositivo-argomentativo su tematiche attualità”. Ecco, se non era ancora accaduto, qui casca l’asino. Ben sette tracce e c’è da sperare che non vengano accompagnate da quel profluvio di materiale (poesie, brani antologici, dipinti, fotografie e quant’altro) che, proposto per anni col fine di aiutare lo studente nella disamina, ha finito viceversa con il confondergli le idee. Lontani i tempi in cui le tracce erano tre e basta (ma non erano ancora nati i social, che hanno dispiegato fino ai limiti dell’orizzonte i loro oceani di parole, la gran parte inutili) e si chiamavano, semplicemente, “temi”, oggi la scuola sente il diritto-dovere di adeguarsi ai tempi.
Va bene, c’è una logica, ci sta. Ma a patto che lo scritto di italiano metta davvero il maturando nelle condizioni di esprimere ciò che pensa lui, non ciò che pensano gli altri ovvero gli intellettuali di turno che compongono i materiali a latere. Un po’ come, stando alla medesima comunicazione di ieri, si continuerà a fare con l’esame di terza media, conclusivo del primo ciclo. Del resto (e per incontrare la protesta studentesca), semplificare lasciando al candidato la possibilità di esprimere le proprie idee su un fatto o un testo – che è poi il vero, unico, insostituibile valore di un tema – non dovrebbe essere lo scopo della prova? Se il foglio bianco, con una richiesta chiara, concisa e precisa, non serve a dire “chi sono”, a cosa serve?
Quanto al colloquio, su “un testo, un documento, un problema, un progetto” scelto dalla commissione (non è chiaro se lo comunicherà nelle settimane precedenti allo studente, ma crediamo di sì), sottolineiamo solo l’articolo indeterminativo che precede ogni nome: dovrà trattarsi di un solo argomento. Non di più. Così Antonello Giannelli, presidente Associazione nazionale presidi (Anp): “Prendiamo atto della ratio alla base delle ordinanze: la ricerca di una normalizzazione rispetto alla situazione emergenziale”, tuttavia con “la seconda prova, basata su una sola disciplina, riteniamo che si sia registrato un passo indietro” perché “si perde quella interdisciplinarietà che rappresentava un salto di qualità nella rilevazione delle competenze”. Domanda finale: quando potremo tornare ad una maturità matura? Su questo gli studenti dovrebbero manifestare. E magari anche i loro docenti.
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