Intro da colonna sonora, atmosfera che dilaga in arpeggi lisergici prog style, incastri armonici gestiti con la massima naturalezza, equilibrismi ritmici, la tipica dominante di un canto contrassegnato da fioriture jazz.  E’ il magma sonoro che investe l’ascoltatore di un disco di Esperanza Spalding, prestigiatrice di realtà fisiche e sotterranee dove l’aspersione atemporale dell’anima si salda all’attaccamento ad ogni segno stupefacente del presente.



La musicista di Portland non è nuova ad uscite di lunga durata all’insegna dell’esplorazione di ogni centimetro di pentagramma, che lasciano sempre il sospetto di una ricchezza lessicale che non può essere spinta ragionevolmente più in là.  E’ però innegabile che la Spalding ad oggi ha dimostrato di sapersi ripetere ad ogni appuntamento, con l’abilità unica di scoperchiare l’emisfero ancora non indagato del mistero creativo.  Così come un tempo si avventurava dalla rigorosa ortodossia jazz di “Chamber Music Society” al cool-pop-swing dell’omologo più leggero di “Radio Music Society, allo stesso modo la recente immersione rock di “Emily’s D+Evolution” lascia il testimone al caleidoscopio variegato denso di soluzioni spericolate e grandiosa naturalezza del nuovo “12 Little Spells”.   Dodici quadri visivo-musicali che diventano sedici nella stampa in supporto fisico (CD e doppio vinile), con quindici minuti in più maneggiati con estro e leggerezza dalla musicista americana.



La complicità è quella della rock band che già supportava la Spalding incendiaria di “Emily’s D+Evolution”.  Matthew Stevens delle chitarre e Justin Tyson alla batteria si scambiano in maniera mirata i ruoli strumentali con la stessa Spalding, cimentandosi anche rispettivamente a basso e tastiere e coproducendo il tutto con l’autorevole titolare, che a sua volta dispensa il suo tocco magico all’organo e piano.  Arricchiscono il tutto una sezione fiati  e un quartetto d’archi oltre alle immancabili coloriture di coristi e controcoristi.  Il supporto tematico è invece fornito dall’abbinamento di illustrazioni visive (in gran parte anche immortalate su videoclip) a ciascun brano.  Il tutto si propone di coadiuvare l’ascolto con l’immersione in un’esperienza fisico-sensoriale completa, eppure già il solo riferimento sul booklet ad una immagine chiave per ciascuna canzone, finisce per accompagnare la fruizione di una musica talmente eloquente da bastare a se stessa.



Camaleontica e scorrevole come i grandi estensori delle contaminazioni tra classica e rock sanno essere, seduttiva ed elegante come un’autorevole icona della jazz music, la Spalding arriva a suonare come un’allieva prediletta di Tony Banks nei vortici di accordi di To Tide Us Over e Lest We Forget, inglobando in questo gioco musicale fuori dal tempo i tratti soul sbucciati e attoniti di James Blake.

L’ingegno è quello di aver letteralmente brevettato un approccio “mastermind” in grado di scandire una cronologia rovesciata della storia della musica, saldandosi alla forza visionaria dei capiscuola del massimalismo applicato al rock, senza rinunciare all’input del proprio suono e di quello degli esponenti della nuova musica.  Un flusso che prosegue nelle virate frippiane a bruciapelo di The Longing Deep Down e Readying To Rise, nelle suggestioni giocate chirurgicamente con la psichedelia levigata di ‘Til The Next Full o quella anestetica di Touch In Mine.
Ci sono poi i recuperi storici che ridisegnano con la pianistica All Limbs Are e la liquida visionarietà di Now Know le arie dei cool standard, veicolandole in maniera mirabile nel distintivo immaginario pop jazz spaldinghiano.  E ancora la creatività incontenibile che sposa fusion, spiagge semitonali e contaminazioni rock della title track, di una Dancing The Animal piena di rincorse scat e di una spumeggiante With Others sostenuta dalle asimmetrie del basso acrobatico della Spalding.
Ma è un disco che seduce e tiene con sé l’ascoltatore anche a livello di feeling e di schietta immediatezza nei deliziosi ammiccamenti musical di Thang e in quelli discofili di You Have To Dance e che presenta nella sezione bonus – dopo la sontuosa musicalità della citata di Lest We Forget – tre ulteriori episodi che segnano un compromesso tra le ambizioni del disco e alleggerimento a suon di divertissement. 

Lest We Forget in inglese traduce la nota e significativa espressione “per non dimenticare”.  Il mastermind della Spalding si candida come ultimo e più eccitante ritrovato che il pensiero musicale abbia escogitato per rivisitare la meraviglia della musica tutta d’un fiato.