Essenzialmente, dare un giudizio sulle elezioni presidenziali del 2008 significa tentare un giudizio sulla figura di Barak Obama. Questo perchè John McCain è una quantità nota, un rispettabile esponente della tradizione stoico-individualista americana e del partito repubblicano tradizionale (che era alquanto diverso da quello di George W. Bush). Obama invece è certamente un uomo nuovo, sia come generazione sia, forse, come cultura. Dico forse perchè da un certo punto di vista nessuno sa cosa pensi Barak Obama. Una caratteristica saliente della sua campagna è stata una riservatezza assoluta su ogni questione identitaria. In un’America sempre più divisa ideologicamente, Obama ha evitato attentamente di esporsi su questioni filosoficamente scottanti, come la natura della famiglia, il ruolo dello stato nell’educazione, il rapporto tra religione e politica, il multiculturalismo etc. Questo silenzio può avere una doppia interpretazione. Da un lato è probabilmente una forma di dissimulazione politica da parte di Obama, i cui trascorsi politici indicano una fedeltà quasi assoluta alle ortossie ideologiche della sinistra liberal americana. Allo stesso tempo, l’ambiguità di Obama riflette anche un genuino cambiamento della cultura politica della sinistra americana, che è sempre più slegata da ogni retroterra culturale tradizionale. Mancando di punti di appoggio “conoscitivi”, essa tende inevitabilmente ad affidarsi a un miscuglio di tecnocrazia e sentimentalismo, e a rifuggere da ogni discussione di questioni di principio. Questa lenta deriva in un nichilismo “inconscio” è probabilmente la descrizione più accurata del contesto in cui si muove Barak Obama, ancor più delle furie ideologiche che pur agitano vari settori del partito democratico. Se devo tentare di riassumere in una frase ad effetto le prospettive di una presidenza Obama, direi che Obama è partito con l’ambizione di essere un Reagan di sinistra, e finirà (se gli va bene) con l’essere la versione americana di Tony Blair. Spiego le due affermazioni separatamente. Obama ha cercato di proporsi come una figura unificante che trascendesse la dolorosa e crescente polarizzazione ideologica del paese. Questo era stato il merito di Reagan che, per quanto fortemente conservatore, fu capace di appellarsi agli ideali comuni americani (ottimismo, speranza di un futuro migliore, amore per la libertà etc. ).
Nel caso di Obama si è visto molto in fretta che tale appello era sopratutto di natura retorica, in quanto il cuore del candidato non era lì, cioè non era mosso dalla fede tradizionale nel cosiddetto american exceptionalism. Questo è il solo motivo per cui, a dispetto dell’impopolarità dell’amministrazione Bush, Obama non sta vincendo con trenta punti di vantaggio come sarebbe logico aspettarsi. L’americano medio percepisce che Obama non è “uno di loro”, perchè ciò che lo definisce è innazitutto una forma di liberalismo intellettuale, cosmopolita e tecnocratico. Questa è ormai la forma culturale dominante delle potenti elite giornalistiche e intellettuali, ma resta ancora estranea alle masse popolari. Ma se questa è la definizione “vera” di Barak Obama, si capisce anche il parallelo con Tony Blair, la cui politica interna ha coinciso con un incremento oggettivo del ruolo dello stato. È il destino del liberalismo sentimentale e tecnocratico di credere nel ruolo redentivo dello stato, esercitato da elites burocratiche illuminate, intellettuali, multiculturali e ultimamente intolleranti. Questa è probabilmente la fede che muove anche Barack Obama. In conclusione, però, la sensazione dominante che si ricava dalla stagione politica in corso è quella di un vuoto culturale sempre più profondo. E’ ultimamente questo vuoto che definirà l’era dell’ “ineffabile” Barack Obama.
(Carlo Lancellotti – New York)