Saakashvili sembra proprio condannato a un onorevole congedo anticipato. No, non perché i nostri tonanti leader ricusino di avere a che fare con lui e lo chiamino un «cadavere politico». Vi sono cause ben più serie. Dapprima gli americani hanno cominciato a dire cautamente, con qualche mezza allusione, che loro avevano cercato di trattenere l’alleato, ma quello non li aveva ascoltati.
Poi hanno ammesso che è stato Saakashvili a fare il primo passo nel baratro della guerra. Adesso lo dichiarano anche a livello dei vertici dell’esercito. Che cosa dicano poi, al tempo stesso, della Russia, è un altro affare. Qui, adesso, ci interessa il fatto che il loro protetto non abbia giustificato la fiducia riposta e che abbia procurato loro più danni che vantaggi. Con un simile fiduciario, i guai non mancheranno mai: finché sarà al potere, per la Georgia non ci sarà posto nella NATO, perché i suoi problemi locali possono diventare in qualunque momento un grattacapo globale per il sistema difensivo; d’altro canto, non si può neppure opporre un rifiuto a Tbilisi – perché, allora, si sarebbe inscenato tutto questo gioco? Quindi si escogitano vaghe formule di promessa: sì, certo, come no, staremo a vedere. Già echeggiano dure dichiarazioni dei leader dell’opposizione georgiana; Nino Burdzhanadze si reca negli Stati Uniti d’America per presentarsi a entrambi i candidati.
È proprio qui la differenza radicale tra la nostra situazione e quella della Georgia. Lì si possono aggiustare le cose sostituendo la figura-chiave; da noi invece il problema non sono le figure, ma l’assoluta mancanza di un quadro intelligibile del futuro. Cosa su cui invece i georgiani sono a posto; sono piccoli, senza risorse, con una bella natura e un ottimo vino; e si sono sempre nascosti al riparo delle ali di qualche potenza scaricandole addosso tutta la responsabilità, finanziaria, militare, politica, per occuparsi invece dei propri affari. Così è stato con l’impero russo, poi con l’URSS e più avanti ancora con gli States. Del resto, per un piccolo Stato non vi sono molte alternative: o chiudersi in un’orgogliosa solitudine e povertà, o mettersi sotto la protezione di qualche potenza. Noi invece siamo troppo grandi per comportarci da piccoli; nella storia dobbiamo determinarci da noi, a tentoni, senza possedere finalità politiche costanti, ma solo mutevoli.
Oggi come oggi, le decisioni prese dopo la guerra con la Georgia (ripeto, una guerra inevitabile) hanno determinato inevitabilmente una svolta in direzione imperialista. L’URSS è crollata, e noi ricominceremo a costruirla come i pezzi di un puzzle. L’America si è fatta insolente, e noi la fronteggeremo da pari a pari, creando un nuovo centro di forza. Il problema non è che porsi da imperialisti sia impossibile per principio (è possibilissimo, come dimostra eloquentemente l’impero americano postmoderno).
Il problema è che quest’obiettivo non corrisponde alla realtà.
E qual è la realtà?
Da un lato un Occidente eterogeneo, ma capace di stringere accordi al proprio interno, dove l’Europa non è – nell’insieme – molto contenta dell’America, elogia volentieri l’audacia russa e appoggia (così dicono i sondaggi) il discorso di Putin a Monaco. Ma pur possedendo un peso economico incomparabilmente maggiore, non si azzarda a minacciare gli americani. Perché capisce che non le conviene. C’è poi la Cina, che sta lentamente ingigantendosi, senza tallonare nessuno né interessarsi più di tanto ai problemi all’esterno, ma solo ai suoi interni, e Dio solo sa quel che pensa dentro di sé. E dov’è posizionata la Russia del XXI secolo? Proprio nel bel mezzo del mondo che sta nascendo, dove ci saranno solo due centri reali di forza, l’Occidente nel suo insieme e la Cina. Tertium non datur.
Le pretese di far da contrappeso all’America sono sproporzionate alle nostre possibilità storiche. Quindi, se non si vuol strafare né disperdere energie a vuoto, le possibilità sono solo tre. A sinistra, allearsi con la Cina. Che non ha alleati, ma solo partners temporanei che è pronta a lasciare a piedi alla prima possibilità. Oppure a destra, allearsi con l’Occidente. Che riesce ad annegare tutto in trattative insensate e non si risolve a intraprendere alleanze coraggiose. Oppure restare al proprio posto, nel mezzo.
E questa sarebbe la variante migliore. Ma non nel ruolo di contrappeso generale. Bensì di intermediario, mediatore, tessitore di equilibri. Che sa difendere i propri interessi, senza ingerirsi nel campo altrui; tutelare i propri confini, senza velleità di ampliarli. È una possibilità reale, in linea di massima? Non si sa. Occorrono sia la nostra volontà che l’assenso altrui. Ci sarà questo assenso, se noi manifesteremo la nostra volontà? Chi lo sa. Ma senza la nostra volontà, di sicuro non se ne farà niente.