Il topos “guerra dimenticata” è frusta retorica che non s’adatta al Congo.
La logica, talvolta amica della retorica, in questo caso si mette di traverso con un sillogismo incontestabile: per dimenticare qualcosa, bisogna conoscerlo, quel qualcosa.
La guerra del Congo non può essere una guerra dimenticata perché è una guerra sconosciuta.
Milioni di morti (chi dice 6 e chi dice 10, come se quattro potessero trovar pace nella definizione di “errore statistico”) in 12 anni di conflitto di cui nessuno ha notizia. Tranne i morti di cui sopra e le loro famiglie: i sopravvissuti. Restando prudenti e calcolando sei milioni di morti, potremmo dire che nel Kivu c’è un attentato alle Twin Towers ogni due giorni. O c’è un Olocausto in atto.
Ma sottovoce: qualcuno ha messo la sordina alla partitura in bemolle che da oltre un decennio insanguina l’Africa di Mezzo.
«Ricordo la mia infanzia con i coloni», dice Nicholas, oggi sessantenne. «Ci trattavano come bestie, a volte. Eravamo servi. Eppure ci davano le scuole. Io ho imparato il francese. E a far di conto. Poi una dittatura lunga 30 anni che ha svenduto il Paese. Poi una guerra e un’altra e un’altra, a distruggere il poco che restava. Eccomi: un vecchio che guarda i suoi figli e che proprio non sa come dar loro un futuro». Tecnicamente, si chiama conflitto a bassa intensità. Fatto per logorare. Non esplode in un mese, non brucia come paglia in poche settimane, ma come brace negli anni. Stillicidio di anime, sogni, pensieri.
«Per affrontare questa nuova crisi del Kivu dobbiamo collaborare e restare uniti», dice fiero un responsabile di una Ong internazionale ad uno dei tanti tavoli di coordinamento tra agenzie Onu e organizzazioni non governative.
Un congolese prende timido la parola: «Nuova crisi? Ogni europeo che arriva in zona e ci resta per dodici mesi per poi partire alla volta d’un qualche altro Stato africano, parla di nuova crisi del Kivu. Non è una nuova crisi. È la stessa, interminabile guerra. Solo che per accorgersene bisogna viverla. Non c’è nessuna crisi in atto. C’è una guerra, in atto. Da oltre un decennio. A lei sembra una crisi e quindi la affronta come una crisi. Analizza i fatti contingenti che hanno scatenato la crisi. Ma la trama è più complessa e lei, senza offesa, non la può capire».
Uno a zero e palla al centro.
Era il 1996 quando il Rwanda, reduce dal noto genocidio del 1994, insieme a Burundi ed Uganda appoggiò l’esercito di Laurent Desiré Kabila (Kabila il vecchio). Tale esercito era in gran parte composto da guerrieri di etnia Tutsi. Due le motivazioni che fecero nascere la compagine: la prima politica, l’altra economica. Lo Zaire di Mobutu venne invaso per proteggere i Tutsi e i Banyamulenge (questo il nome dei Tutsi di nazionalità congolese) e anche per sfruttarne le ricche risorse minerarie e naturali. Nella primavera del 1997, Kabila il Vecchio ebbe definitivamente la meglio sull’armata, ormai allo sfascio, di Mobutu. Lo Zaire cessò di esistere e nacque la Repubblica Democratica del Congo.
Soltanto un anno dopo, Kabila ringrazia gli alleati e chiede loro di andarsene: la conquista del Paese è conclusa e truppe straniere sul territorio della RDC sono scomode, ma nessuno di coloro che ha partecipato alla “Liberazione” dell’ex-Zaire è propenso a mollare la presa sull’est della Nazione, ricco e fruttuoso.
Inizia così la seconda guerra del Congo che, anche se ufficialmente conclusa nel 2002, non ha mai avuto fine. Un dato su tutti: secondo una stima Unicef del 2004, i morti per cause legate al conflitto ammontavano a più di 1.300 al giorno. Un’ecatombe.
Oggi non esistono statistiche certe, anche perché la conta dei cadaveri deve lasciar spazio ai sopravvissuti: attualmente, nella sola regione del Nord Kivu, gli sfollati per cause di guerra si aggirano intorno all’1.100.000 anime, perlopiù ammassate in improvvisati campi profughi dove l’assistenza alimentare e sanitaria è ridotta al minimo, se non del tutto assente.
I dettagli di cronaca e le tante implicazioni di politica estera non possono trovare agile sunto in poche cartelle. D’altro canto, ben misere sono le informazioni disperse sulla ragnatela del web, cosa che non rende facile documentarsi sull’argomento.
È questo il primo, evidente segnale di una guerra sconosciuta: nessuno, comunità internazionale compresa, pare avere interesse nel diffondere le notizie di un conflitto che nella triste classifica delle atrocità batte a tavolino realtà mediatiche come Darfour, Afghanistan, Iraq.
Lontani dalle telecamere, i protagonisti e le comparse di questa guerra infinita, agiscono al riparo da eventuali, anche se forse improbabili, indignazioni dell’audience.
«Dicono che essere ricchi sia una cosa buona – mormora sorridendo Ernest, 46 anni, impiegato di una Ong che lavora nel Kivu –Per il mio Paese sarebbe meglio essere povero. Niente miniere, niente guerra. Non avrei mai pensato di sperarlo. Ma dopo tutto questo, non vedo cos’altro sperare».
Si avvicina alla finestra, Ernest. Il rotore d’un elicottero. Si volta di scatto: «è bianco. Meno male. È delle Nazioni Unite».
Se fosse stato verde, qualcuno, da qualche parte, sarebbe morto.
Una guerra sconosciuta e infinita ha una particolarità ovviamente nota soltanto ai pochi che la conoscono: bisogna conviverci. Non si può mettere in stasi la vita e aspettare che tutto finisca, perché tutto continua da 12 anni. Quindi si impara a vivere in guerra. Studiare, lavorare, innamorarsi, far figli, coltivare, forse invecchiare.
Nell’assordante silenzio del resto del mondo, si impara a guardare il colore degli elicotteri prima di uscire di casa.