Al di là della sfida tra il ticket democratico Obama-Biden e quello repubblicano McCain-Palin, il cui esito, a poche settimane dal voto del 4 novembre, è ancora incerto, le presidenziali Usa del 2008 forniscono una grande lezione di democrazia. Ancora una volta è evidente che il sistema politico-istituzionale americano funziona, e funziona bene per alcuni aspetti che rappresentano l’essenza stessa della regola democratica.



I due candidati designati dalle primarie, soprattutto le democratiche ma anche le repubblicane, con il voto di una cinquantina di milioni di elettori, sono entrambi degli outsider.

Obama ha vinto sulla rivale Hillary Clinton che inizialmente poteva contare sull’appoggio di gran parte dell’apparato di partito, su poderosi finanziatori a cominciare da George Soros, e sull’influenza di suo marito Bill, tuttora uno dei presidenti più amati. Malgrado ciò il giovane afroamericano è riuscito a prevalere, non già con giochi interni al partito ma con la forza del voto popolare.



Non molto diverso è il caso di McCain, partito nella corsa per l’investitura repubblicana svantaggiato perché osteggiato da gran parte dell’establishment del partito dell’Elefante e dai tradizionali sostenitori del partito, il Big Business, che vedevano in lui un maverick – un indipendente non inquadrato – che si era battuto per rivedere radicalmente le regole del finanziamento alla politica.

Queste investiture dei candidati, avvenuta per spinta popolare ancor prima delle Convenzioni, dimostrano come il complesso sistema politico-elettorale, che nasce dalla Costituzione del 1787 ed è stato via via aggiornato con le primarie, le convenzioni e il voto finale dei cittadini, consente grande mobilità dei gruppi dirigenti contro le sclerotizzazioni burocratiche, favorisce il ricambio anche traumatico, come nel caso di quest’anno potrebbe essere il successo di Obama, ed è sempre più affidato direttamente alle mani del giudizio popolare non solo nel voto finale ma anche nei passaggi intermedi come sono appunto le scelte delle candidature.



La fotografia di quel che fin qui è avvenuto sta inoltre a dimostrare come due luoghi comuni della vulgata italiana siano in gran parte falsi e ingannevoli. Non è vero che i denari e le lobby che finanziano la politica decidono chi deve comandare in America. Obama è partito svantaggiato ed è riuscito a raccogliere la maggiore somma mai spesa in elezioni presidenziali in gran parte attraverso alcuni milioni di contributi inferiori ai duecento dollari versatigli nella Rete, secondo un metodo che certo rivoluzionerà anche il futuro il funzionamento delle campagne elettorali. E lo stesso McCain ha dovuto superare l’avversione delle lobbies della sua parte che puntavano tutto sui suoi concorrenti molto più intrinseci al mondo degli affari.

Alle primarie del 2008 hanno votato per i due partiti circa 50 milioni di americani, e il 4 novembre è probabile che votino più dei 122 milioni di elettori (il 61% dei potenziali aventi diritto) che nel 2004 rielessero George W.Bush. Premesso che il sistema americano di voto non è automatico e che occorre registrarsi nello Stato di residenza da almeno 6 mesi, a me pare che la percentuale dei cittadini che partecipano al processo elettorale è notevole se si considera che c’è il voto delle primarie e quello finale, e che ogni cittadino ha in mano una scheda in cui deve scegliere molte decine di candidati per responsabilità federali, statali e locali.

Nel contesto di un sano rapporto tra rappresentanti e rappresentati, è opportuno di questi tempi fare un’ulteriore notazione circa la valenza democratica di ciò che è recentemente accaduto a proposito del voto sul piano presidenziale di 700 miliardi di dollari per ripianare la crisi di Wall Street. I membri della Camera dei Rappresentanti hanno votato in prima istanza contro – i due terzi dei repubblicani e la metà dei democratici – perché ognuno di loro sapeva che avrebbe dovuto rispondere non al partito ma ai propri elettori del collegio dove si dovranno presentare il 4 novembre per avere rinnovato il mandato elettivo. Nel bene o nel male nel sistema americano, in fin dei conti chi comanda sempre sono gli elettori e non i partiti.