Cyprien Kamarande è congolese, ha 48 anni, una moglie, due figlie e di mestiere fa l’agronomo. E’ nato e cresciuto a Rutshuru, un territorio della regione del Nord Kivu. E’ zona di guerra dal 1996, ma solo oggi sale alla ribalta della stampa internazionale perché epicentro, insieme a Goma, dell’ultima “crisi del Congo”.
Da sei anni lavora per l’Ong italiana Avsi su progetti per la sicurezza alimentare d’urgenza: assistenza in viveri, colture a breve ciclo vegetativo e, nelle zone relativamente calme, moltiplicazione di sementi per l’autosufficienza agricola.
Nel 1997 le milizie circondarono il suo villaggio e spararono sulla folla. La prima strage del mercato di Rutshuru. In futuro, sarebbe stato necessario numerarle.
Tra le bancarelle c’erano sua moglie e i suoi tre figli, ma i cadaveri non furono ritrovati lì. Una volta cessato il fuoco, i miliziani trascinarono i sopravvissuti nella chiesa del villaggio.
La famiglia di Kamarande bruciò con l’edificio.
Da quella notte, cominciò a digrignare i denti e trovò la fede. Decise di comunicarlo al mondo con un grande crocefisso appeso al collo.
Tre anni dopo la strage, Kamarande prese ancora moglie e si rifece una famiglia.
Da quando è stato assunto da Avsi, corre sulle strade più pericolose della regione. A piedi, in bicicletta, in auto, in moto e persino in piroga.
Lo hanno già rapinato, minacciato, picchiato. L’ ultimo incidente accadde sulla strada tra Rutshuru e Nyamylima. Un gruppo di banditi lo malmenò e lo lasciò in mutande. Letteralmente.
«Anche i pantaloni, mi hanno tolto – dice sghignazzando – Che vergogna!».
Perché ride? Per due motivi. Il primo è che chi vive in guerra da dodici anni, le lacrime le ha finite. Magari sulle ceneri d’una chiesa. Il secondo è che non l’hanno ammazzato. Come fare sei al superenalotto.
Qualche mese fa, chiamato da Avsi a lavorare in una zona storicamente controllata dal Generale Laurent Nkunda (lo stesso che oggi compare nei titoli dei giornali italiani e che è erroneamente identificato come “il Ribelle del Congo”, mentre i gruppi armati ufficialmente riconosciuti sono 32), Kamarande è salito in auto e ha fatto il suo dovere insieme ad altri due agronomi e al responsabile del progetto.
Una volta arrivati in zona, il gran capo ha deciso di incontrare la delegazione Avsi.
Le guardie del corpo del Generale hanno accompagnato l’equipe dal comandante.
Un evento simile è routine per chi accetta incarichi di lavoro in determinate regioni del Paese. Non fosse che insieme a Nkunda sedeva un altro Generale. Forse lo stesso che diede l’ordine di sparare sul mercato di Rutshuru: sui mandanti e gli esecutori di quella strage, infatti, non sono bastati undici anni per fare chiarezza.
Kamarande si è dunque trovato nella stessa stanza con uno dei supposti carnefici della sua famiglia. A sorseggiare un latte cagliato e a discutere della possibilità di coltivare in zona.
«C’est du travail», è lavoro, ha detto laconico senza aggiungere altro. D’altronde, i vari “incidenti di percorso” in cui l’agronomo è incappato sono riconducibili a differenti gruppi armati. Detta in breve, ovunque egli vada incontra qualcuno che gli ha fatto violenza.
Lo scorso mercoledì 5 ottobre, durante quella che la stampa internazionale ha battezzato come la strage di Kiwanja, Kamarande era là, perché là è casa sua. Kiwanja è un villaggio tanto a ridosso di Rutshuru da esserne considerato un quartiere periferico. Aveva appena finito di controllare i campi di quella zona e sarebbe dovuto salire a Nord-Est, verso Nyamylima, ma gli scontri lo hanno costretto a rintanarsi in casa per 48 ore. Terminato il massacro, ha preso una moto ed è arrivato a Goma percorrendo un asse considerato da tutti off-limits. Due ore dopo il suo passaggio sono ripresi gli scontri.
Appena arrivato alla base di Goma ha organizzato un ponte radio con i suoi colleghi al lavoro in un’altra zona rossa, molto distante dalla città. Per un’ora, attraverso l’antenna di un ospedale al momento risparmiato dagli scontri, le frasi gridate al microfono non riguardavano la guerra, che è normalità e non notizia, ma i risultati del lavoro: «E la manioca l’avete piantata tutta? E i fagioli? Anche quelli? Appena prima che la popolazione scappasse? Benissimo! Meno male». Alla base di Goma, è partita una ola da stadio. Nonostante tutto, la semina è andata a buon fine.
Domattina partirà per il Rwanda per poi salire in Uganda e da lì rientrare in Congo, così da poter arrivare a Nyamylima dopo un percorso tortuoso che consentirà di evitare l’attraversamento del fronte.
Ecco. Questo è vivere in guerra. Abituarsi a campare tra fucili e machete. L’arte sottile dello scegliere il momento giusto per uscire di casa, dell’avere il sangue freddo per continuare ciò che si sta facendo sino a quando i mortai sono ad una distanza “ragionevole”, dell’essere abbastanza fatalisti per credere che: «Se hai sentito il colpo puoi ridere: non era il tuo. Il tuo non lo sentirai».
Soprattutto, vivere in guerra significa andare avanti a testa alta, anche quando incontri il tuo carnefice. L’istinto di saltargli al collo è forte, ma se alla fine vince la tenacia di chi pianta la manioca anche sotto i mortai, allora c’è speranza.
Se coloro che da dodici anni sopportano sulla groppa questa guerra che non si decide a morire, se proprio loro hanno ancora la saldezza di sperare, allora c’è speranza.