Il 5 novembre, mentre si diffondeva la notizia dell’elezione di Obama a presidente degli Stati Uniti, Medvedev pronunciava il discorso annuale del presidente alla nazione. Alcune considerazioni in margine.

Nello stesso giorno, praticamente alla stessa ora, ai due capi del mondo sono intervenuti due importanti personaggi. Molto importanti. Più importanti non ce n’è.



I temi da loro sollevati erano, senza esagerazioni, cruciali. Uno, in piazza, diceva ai suoi sostenitori che il paese stava entrando in un’epoca di cambiamenti. Che la sua vittoria era solo il realizzarsi del fine secolare della democrazia, dare un’opportunità a chiunque lo meriti e abbattere ogni monopolio di potere.



L’altro, in un salone imperiale, ragionava sulla stabilità dello Stato e sulla necessità di emendare la Costituzione perché il potere sia ancor più continuativo e a lunga scadenza.

Entrambi parlavano sinceramente di patriottismo, di libertà civile e della persona, che è più importante dello Stato. Andavano ugualmente orgogliosi della forza e della potenza militare dei propri paesi. Si preoccupavano della crisi mondiale. Esprimevano la ferma certezza di poterne uscire senza sconvolgimenti.

Ma le coincidenze non fanno che sottolineare la differenza di metodo. Che esprime un certo trend politico mondiale. In questi due interventi ai poli opposti del globo sono stati abbozzati due vettori, due antipodi della dura, ferrea logica che governerà gli Stati nel prossimo decennio. La maggior parte di essi si orienterà o verso un rischioso rinnovamento delle élites, o verso la stabilizzazione di una politica di continuità.



In questo processo ci sarà chi salterà la linea a sinistra e cadrà nell’anarchia e nel caos della democrazia originaria; chi invece la oltrepasserà a destra e si guadagnerà un regime globale. Ma al centro del circolo politico le logiche saranno queste. Rinnovamento, anche se non illimitato. Autoritarismo, ma senza fanatismo.

Nel XX secolo le logiche opposte che governavano le grandi potenze erano definite da USSR e Germania da un lato, e da USA e Inghilterra dall’altro. Qualcuno costruì un regime un po’ più blando di quello tedesco, e venne fuori un Mussolini o un Franco. Qualcun altro si provò a superare il compagno Stalin e nacque la Cambogia. Vi fu chi creò delle brutte copie della democrazia americana con a capo leader ladri o implacabili dittatori. Ma in ogni caso il mondo girava intorno a due modelli. Una società di mercato con istituzioni moderatamente democratiche e leader carismatici, limitati dal tempo e dalla legge. E uno Stato totalitario ideologico, spinto in avanti verso grandi mete da un irremovibile timoniere.

Nel XX secolo non c’era molto da scegliere (che scelta c’è tra una libertà relativa e una schiavitù nuda e cruda!?). La Germania nazista come l’URSS comunista erano un vero inferno, con entrate diverse ma con lo stesso fuoco. Inghilterra e America non potevano certo proporsi come il paradiso, ma davano pur sempre all’umanità la possibilità di continuare il lavoro nella storia.

Dove andare? Il problema non si poneva neppure. È evidente, dove si poteva vivere. Che fosse una vita bella o grama, non era fondamentale. L’importante è che fosse vita.

Nel XXI secolo le condizioni di partenza sono totalmente cambiate. Entrambe le varianti centrali di organizzazione statale hanno propri vantaggi e svantaggi; all’interno di entrambi i sistemi è possibile vivere, in linea di principio, senza dover fare patti con il diavolo.

Il continuo avvicendarsi del potere salva dal rischio della stagnazione, abbassa il livello di corruzione, tiene a freno la burocrazia, stimola l’energia politica del popolo. Anche se, d’altra parte, i grafici elettorali frenano le decisioni importanti. I politici passano un sacco di tempo a far promesse, poi si accingono ad adempierle, e solo verso la metà del mandato cominciano l’ingrato lavoro, per poi ben presto frenarlo di nuovo e ricominciare con le promesse…

I clan non vogliono perdere le proprie posizioni, le stesse famiglie candidano sempre nuovi membri; cambiano le figure concrete, ma i clan restano. E si rincorrono a vicenda, come onde che passano dall’alta alla bassa marea e via di questo passo. Nell’ultimo ventennio la maggior potenza democratica mondiale ha visto per due volte al potere i Bush. Se non ci fosse stato Obama, i Clinton avrebbero potuto ritornare di nuovo…

In compenso, nessuno dei rischi della democrazia turba le corporazioni politiche, che una volta preso il potere non hanno nessuna intenzione di lasciarselo scappare. Una corporazione è pressoché libera dai capricci degli elettori; è essa stessa a decidere chi, quanto e in qual misura sarà a governare. Se lo riterrà opportuno, limiterà in maniera informale qualunque tipo di potere. Se così le piacerà, rimetterà sul trono il leader di ieri, regalandogli altri dodici anni dopo gli otto trascorsi da presidente e quattro come primo ministro. In tutto ventiquattro anni di potere, contro i diciassette di Brežnev.

Si possono in qualche modo far digerire le necessarie ma impopolari misure legislative. Tenere tranquille le popolazioni. Mettersi al sicuro dall’abitudine di far le rivoluzioni. Ma c’è un prezzo da pagare. La corruzione è inevitabile in una corporazione, perché non si possono sempre punire i propri membri; il sistema giudiziario non sarà mai indipendente, perché esulerebbe dalla corporazione; gli utili idioti, di cui una corporazione non può fare a meno, si infiltrano in tutti i buchi. Soprattutto nella nicchia parlamentare e nei mass media addomesticati. Da un pezzo ormai la Duma di Stato e le testate più solide non sono tribune di dibattito.

Non c’è il terrore, ma ogni energia creativa dei cittadini impegnati si esaurisce, il cinismo sta diventando un fenomeno di massa: perché darsi da fare, se tanto non si può cambiare niente?

L’economia, che dovrebbe essere diretta da grandi esperti, comincia a girare a vuoto, perché non è in grado di svilupparsi realmente in una situazione di non concorrenzialità. E così via.

Ripeto, scegliere tra Stalin e Churchill era molto più semplice che non scegliere tra democrazia e corporazione. Là si era tra una morte garantita e una vita con tutti i suoi problemi, e non è difficile indovinare che cosa preferirebbe una persona normale. Ma dovendo scegliere tra due sistemi accettabili nella loro imperfezione?

La domanda va posta in altro modo. Non quale sia bene e quale sia male, ma in quale dei due modelli statali sia possibile uno sviluppo, sia pur gravido di cadute e di temporanee scivolate all’indietro. E in quale, invece, non si faccia altro che segnare il passo, battere fiaccamente l’aria senza in realtà spostarsi di un palmo.

Laddove c’è sia pur la minima opportunità di un cambiamento, di una svolta, di un rinnovamento è salvaguardata la duttilità, e quindi la vitalità del sistema. Il sistema vibra e batte in testa; oscilla come se fosse molleggiato, e proprio per questo non va in mille pezzi. Laddove invece questo non esiste, il sistema lentamente si irrigidisce. Diventa solido e incrollabile. Fino alla prima brusca sterzata della storia. Che inevitabilmente si presenta, non c’è niente da fare. La costruzione rigida si incrina dalle fondamenta, si frantuma, e tutta la sua accettabile imperfezione sparisce nel nulla.

(Traduzione a cura di Giovanna Parravicini)