Il Cardinale Francis George è la figura più brillante dell’Episcopato statunitense, un teologo nel quale è facile riconoscere gli accenti e le preoccupazioni di Papa Ratzinger. Ora è anche presidente della Conferenza Episcopale, e, come se non bastasse, è l’Arcivescovo di Chicago, la città da cui è partita la stella di Barack Obama.



La provvidenza ha voluto che pronunciasse il suo discorso inaugurale all’assemblea dei Vescovi nordamericani a Baltimora, appena una settimana dopo le elezioni presidenziali: un intervento per nulla formalista, che merita profonda attenzione.

George non ha perso l’occasione per valorizzare il significato storico della vittoria di Obama: «Un Paese che un tempo aveva adottato la schiavitù razziale nella sua Costituzione ha eletto ora un afroamericano come Presidente, e per questo credo che tutti dobbiamo esultare».



Subito dopo, il Cardinale di Chicago parte da questa novità per denunciare una situazione che colpisce storicamente i cattolici negli Stati Uniti. Esprime felicità perché la coscienza sociale è avanzata fino al punto che nessuno ha chiesto a Obama di rinunciare alla sua origine razziale per essere presidente, al contrario di quanto avvenne quando Kennedy arrivò alla Casa Bianca e dovette garantire che la sua condizione di cattolico non avrebbe influito sulla visione delle cose.

Per il Cardinale, al giorno d’oggi i cattolici non sono arrivati a essere riconosciuti come veri “partner” per l’esperienza americana, a meno che non siano disposti a mettere da parte alcuni aspetti della dottrina cattolica riguardanti la morale e la politica. È un’affermazione seria, che rivela i limiti della laicità positiva americana e che pongono un grande interrogativo sul futuro.



Un altro passaggio del discorso anticonformista di George si riferisce al lavoro per il bene comune sul quale i politici, le Chiese e le comunità religiose e gli attori sociali dovranno trovare un terreno comune. Il Cardinale sostiene che la giustizia razziale e la giustizia economica sono pilastri della Dottrina Sociale della Chiesa, e pertanto elogia il fatto che entrambi gli aspetti sembrano occupare la nuova agenda presidenziale, ma avverte con forza che «il bene comune non può essere adeguatamente incarnato in nessuna società nella quale chi sta per nascere può essere legalmente ucciso».

Il richiamo è risuonato chiaro nel momento in cui i collaboratori di Obama lasciano intravvedere l’intenzione della nuova Amministrazione democratica di procedere a un’ampia liberalizzazione dell’aborto.

Inoltre, il Cardinale non ha paura di stabilire un paragone tra il danno che avrebbe avuto per la convivenza civile il mantenimento delle legge razziali (che avrebbero impedito l’elezione di Obama) e la ferita che oggi infligge l’aborto. Perciò richiama una decisione del Tribunale Supremo di 150 anni fa, secondo la quale gli afroamericani erano proprietà di altre persone, e sentenzia che oggi come allora «non si può trovare un terreno comune distruggendo il bene comune».

Ci sarà chi troverà troppo “acido” questo valoroso intervento, nella melassa generale che circonda il prossimo cambio nella Casa Bianca. In ogni caso il Cardinale George ha servito con rettitudine il suo paese e, cosa più importante, ha fatto sì che la voce della Chiesa abbia avuto peso e rilevanza in un dibattito troppo vuoto e teatrale come quello dell’ultima settimana.