Barack Obama vuole costruire un “team of rivals”, una squadra di avversari. La sua politica, ha spiegato il consulente democratico Bob Shrum, è inclusiva. Vuole mettere tutti sulla stessa barca a remare nella stessa direzione per un obiettivo. Visione pragmatica che poco ha da spartire con le incrostature ideologiche tradizionali.
Durante la campagna elettorale Obama venne definito anche un “candidato post ideologico”, un politico al quale male si adattano le tradizionali etichette politiche, destra-sinistra, conservatore-progressista (o liberal nell’accezione statunitense del termine). Laddove Karl Rove, il guru elettorale e super consigliere di Bush, costruì una maggioranza risicata ma saldamente conservatrice e per anni l’ha coccolata spingendo sull’acceleratore di politiche gradite a una sola parte dell’America, Obama promette altro. Promette, appunto. Ciò che risulterà saranno gli avvenimenti e le scelte di domani, non certo i proclami – peraltro equilibrati e misurati – del team del presidente eletto.
Pochi ricordano, o perché accecati da un pregiudizio anti-Bush, o perché la memoria talvolta difetta, che da governatore del Texas Bush collaborò con un’Assemblea statale democratica. Era stato un governatore disposto a “reach across the aisle”, a oltrepassare i confini partitici. Quando s’insediò alla Casa Bianca alcune delle sue nomine rientravano in questa logica: tenne George Tenet (nominato da Clinton) alla guida della Cia; tenne Norman Mineta (clintoniano pure lui) a guidare il dipartimento dei Trasporti. E dopo l’11 settembre riuscì, prima di dilapidare consensi e stima di molti nell’avventura irachena, a saldare la Nazione e a governare con spirito bipartisan. Certo, l’America viveva un’emergenza nuova e terribile e l’unità era forse una strada obbligata. Ma non tutti accettarono le aperture di Bush con lo stesso entusiasmo. Fra gli scettici, sarà un caso, Tom Daschle, allora numero uno democratico al Senato, oggi ministro della Sanità in pectore di Obama.
Bill Clinton scelse un repubblicano, William Cohen, come ultimo segretario della Difesa del suo mandato. Insomma il cosiddetto spirito bipartisan di Obama non deve essere preso per una novità assoluta. In fondo tentare di conciliare esigenze diverse e sanare le ferite di una campagna elettorale (sempre più o meno profonde) è una missione che gli americani sentono urgente già all’indomani dell’Election Day. Abraham Lincoln volle nel suo esecutivo i nemici, molto più che avversari politici, della guerra di secessione. Considerava la creazione di un’Amministrazione inclusiva il miglior modo per far sentire parte della Nazione chiunque, anche chi lo aveva osteggiato con forza negli anni della più grave crisi della storia Usa.
Non è un caso che Obama citi e ricorra sovente a Lincoln. Nei discorsi e nel modo di agire. Quando era ad Harvard diventò direttore della Rivista di legge conquistando il voto e l’apprezzamento dei conservatori.
Da presidente eletto si muove secondo lo schema lincolniano. Apre le porte ai rivali, da Hillary Clinton a potenziali repubblicani per un posto nel suo Gabinetto (Bob Gates al Pentagono). E “perdona” i dissidenti, come Joe Lieberman, massimo supporter di John McCain al quale i suoi compagni nel partito democratico, su input di Obama, hanno concesso di mantenere la guida della Commissione per la Sicurezza.
L’atteggiamento di Obama non è tuttavia, come dimostrano Lincoln, Bush, Clinton e lo stesso Reagan che imbarcò fior di esperti democratici nella sua Amministrazione (in primis Jeanne Kirkpatrick) una novità. Barack Obama opera in un humus già fertile. In una prospettiva tipica della società americana: ovvero il profondo rispetto per le istituzioni, per gli interessi della Nazione che sempre trascendono il particolare, gli interessi di bottega del singolo.
“Giusto o sbagliato è sempre il mio Paese”, recita un vecchio adagio americano. Non è un ritornello svuotato di senso. È piuttosto l’essenza stessa della partecipazione alla vita pubblica Usa, il saper riconoscere e stare nelle regole. Non come forzatura o autoimposizione, ma come intrinseca capacità di fare un passo indietro per il bene supremo.
Ci stupiamo nel vedere McCain sorridente chiacchierare con Obama 10 giorni dopo la batosta nelle urne. Ci stupiamo nel vedere il vecchio eroe di Guerra promettere collaborazione e impegnarsi in prima persona per far progredire l’agenda dell’America (e non solo quella di Obama). Ci stupiamo noi italiani abituati al pollaio e al battibecco virulento, sguaiato e carico di risentimento dei politici del nostro cortile all’indomani e nelle settimane (per non dire mesi) postelettorali. Non si stupiscono, non sgranano gli occhi gli statunitensi. Merito di una cultura che li porta ad accettare vittoria e sconfitta come figli dei propri errori e della scelta della gente. Cultura della democrazia, non quella a parole, ma quella che impregna ogni rivolo della società, del vivere.
Obama è americano, molto americano, in questo. Ed è bravo a sfruttare questa sua peculiarità cercando di allargare il già vasto consenso ottenuto. Ma lasciamo stare i trionfalismi, l’elogio dello spirito bipartisan come fosse qualcosa di ritrovato, quasi di scoperto da questo sapiente vincitore afroamericano.
Non è vero che l’America è tornata ad essere l’America con Barack Obama. Quella Nazione è sempre stata lì. Diciamo che a molti europei non piaceva perché non la comprendevano. E oggi appare tutto così nuovo e fresco. Ma è solo la forza della tradizione e della democrazia di questa vituperata e spesso dileggiata nazione che ha reso possibile la vittoria di Obama.