Stà, Goma.

Col fiato inchiodato, le orecchie tese e gli occhi piantati per terra, nella speranza d’intravedere che ne sarà della prossima notte.

L’anima della città è in bilico tra disperazioni e speranze. L’anima della città sanguina per gli omicidi, i saccheggi, i regolamenti di conti che dopo il tramonto terrorizzano i quartieri più poveri. Tra le baracche di legno e di latta costruite sulla lava del grande vulcano, la gente di Goma scambia ogni tuono per un mortaio. Gira e rigira, non dorme, ansima, aspetta. E al mattino, le occhiaie di Goma raccontano in breve la storia d’una guerra infinita. Gli sguardi rassegnati di chi in questa guerra ci vive valgono un tomo di storiografia.



Sono le 14,30 di mercoledì 29 ottobre quando i telefoni squillano all’unisono. I ribelli sfondano il fronte della città. L’esercito regolare fugge. Le strade di Goma impazziscono, le serrande si abbassano e il pomeriggio, solitamente sonnolento, corre ai mille all’ora, caotico e disordinato, verso ovest, verso la salvezza. Interi quartieri si svuotano. Le famiglie si cercano, le auto sbandano, i militari urlano, i fucili sparano.



Chi può, scappa. Chi non può, si rintana come una bestia. Una bestia senza unghie né denti.

Siamo in ufficio.

Chiedo allo staff internazionale di Avsi di evacuare in Rwanda, sperando che le frontiere siano ancora aperte. Se fossero chiuse, ci sono due punti di raccolta per il personale delle Ong. Ci si deve dirigere là.

Carichiamo in auto un baule di latta pieno di documenti ufficiali che non devono essere persi o, peggio ancora, cadere in mani sbagliate. Smontiamo gli hard disk dei computer. Lo staff parte. Per fortuna, la sbarra bianca e rossa che consente di uscire dal Paese è ancora alzata.



Resto con dipendenti locali. Alcuni vogliono tornare a casa e possono farlo, perché la strada verso le loro famiglie è libera. Altri vorrebbero, ma è tardi. Quindi rimangono. Ci sediamo sui gradini dell’ingresso e ascoltiamo le raffiche di mitra farsi sempre più vicine. Ladislas è un assistente sociale. Ha più di cinquant’anni e di guerra ne ha vista fin troppa. La sua casa è stata bruciata l’anno scorso. Mira e rimira le punte delle scarpe. Poi fa una battuta e sghignazza: «C’est terribile». E ride e ride e ride. Perché in questa guerra infinita, o impari a ridere o muori.

Ernest è un logista. Anche lui sulla cinquantina. Lo hanno già rapito e rapinato durante diverse missioni di servizio per Avsi. Non si stacca dal telefono. Le notizie peggiorano.

Muhindo è più giovane. Anche lui, proprio dieci giorni prima, se l’è vista brutta con un altro gruppo di ribelli che lo ha trattenuto per quarantotto ore in un villaggio nel bel mezzo della foresta, con l’accusa di essere una spia. Muhindo sale in moto e fa un giro del quartiere, per vedere se scappare, pur rischiando, sia più sicuro di restare.

Diventa buio.

Tutti cercano di tornare a casa. Io non posso. Cerco un hotel e spremo il Land Cruiser per arrivarci il più in fretta possibile.

La notte è uno spettacolo gelido di traccianti nel cielo e di violenze per strada.

Brucia, Goma.

Oggi, domenica 2 novembre, non siamo ancora riusciti a fare la conta esatta dei morti solo per quanto riguarda le famiglie dei nostri dipendenti. Figuriamoci gli altri.

I tre giorni passati tra l’inizio dell’ennesima crisi del Nord Kivu e il momento in cui scrivo queste righe, sono giorni senza storia. Giorni grigi. Giorni in bilico tra restare e fuggire. Una calma apparente regna tra i vicoli e le officine. Qualche negozio riapre, anche se i prezzi sono triplicati. Goma cammina sulle sue strade guardinga e spaurita, persa nei ricordi dei massacri che furono e che potrebbero essere ancora. Goma singhiozza, piangendo i morti che nemmeno lei sa. Goma accoglie i disperati delle periferie. A decine di migliaia. E Goma non sa dove metterli. Anime in marcia perenne, in fuga perenne: sulla testa un fagotto con due pignatte e una coperta lisa, tutto ciò che resta, tutto ciò che forse servirà. Domani, lunedì 3 novembre, sarà il compleanno di mia moglie. Camilla. Un nome da fata in una fiaba di guerra.

Ho comprato per lei delle candele colorate, una rana gonfiabile e una tavoletta di cioccolata. Le uniche cose che sono riuscito a trovare in città. Mentre pagavo il conto, mi sono chiesto come passerà questa notte. Io, bianco privilegiato, io con un portafoglio ancora zeppo di dollari e una grande auto per scappare, ho dato fondo ai beni di lusso reperibili a Goma. Nei quartieri periferici, a fatica si trovano riso e fagioli. Il colera, invece, è in svendita. Tre per due. Ascolteremo i risultati delle mediazioni internazionali. Ascolteremo il parere dei ministri degli esteri, dei consoli, degli ambasciatori, dei delegati. Ascolteremo il cielo, per sentire se fa bum o se resta tranquillo.

Ma chi ascolterà il grido continuo e straziante di un popolo massacrato che da 12 anni non chiede eterna giustizia, ma soltanto pace? Chi ascolterà le risate tristi di Ladislas, le telefonate di Ernest, i commenti di Muhindo?

Oggi sono stato intervistato da diverse testate nazionali. Oggi, il Congo è carne da audience. Ma oggi non accade nulla di strano rispetto al passato. Questo è il dramma vero di un popolo. Non esistere in Tv.

Oggi, dopo qualche servizio Tg e qualche velina d’agenzia, i fondi a disposizione per l’intervento umanitario, sono duplicati. Ma oggi (e questa è la cosa da comprendere) è solo un giorno come tanti degli ultimi 12, terribili, paurosi, indicibili anni.