La gara nel Partito Democratico tra Barack Obama e Hillary Clinton è stata, se così si può dire, quella definitiva. Qui si sono scontrate le due più potenti forme di idealismo politico esistenti e le elezioni vere e proprie hanno solo testato il risultato, contro la determinazione dell’America conservatrice. Il cosiddetto idealismo ha trionfato.



Quali le reazioni? Negli ultimi giorni ho continuato a ricevere messaggi da persone, più vecchie e più giovani di me, che mi invitavano a unirmi a loro per festeggiare l’elezione di Barack Obama. E mi dicevano: che momento incredibile, che esperienza stiamo vivendo!

Sì, ho risposto, ma non più di lunedì scorso. Non che la veda come una cosa negativa, ma non trovo nessuna utilità nel trattarla in questo modo. In realtà non mi interessa chi ha vinto, così come non ho parteggiato prima per nessuno dei due candidati. Li considero entrambi persone rispettabili con qualità diverse e considero entrambi, nella stessa misura, fragili esseri umani inclini all’errore come il sottoscritto.



Dopo l’esclusione di Hillary Clinton dalla corsa, non ho scritto molto sulla campagna elettorale, salvo far presente di tanto in tanto la progressiva diminuzione di una chiara differenza tra la visione di Barack Obama e quella di George W. Bush. Trovo questo fatto significativo, e forse profetico.

Benché nell’euforia della vittoria sia stato per ora dimenticato, c’è stato un breve momento nel corso della campagna in cui i sostenitori progressisti di Obama cominciarono a guardare per traverso il loro eroe, con il sospetto che, in base a un paio di dichiarazioni sulla guerra al terrore, avesse iniziato a recedere dalla sua precedente posizione sull’Iraq.



Per un istante, la mente progressista è stata percorsa dal dubbio che quest’uomo, dopo tutto, non potesse essere la reincarnazione di Martin Luther King o Bobby Kennedy. Invece di parlare di pace e di amore, parlava di realismo nella politica estera. Invece di parlare della gloriosa libertà, parlava di responsabilità e, ancora peggio, appariva critico verso l’utopismo degli anni ’60.

Tralasciando numerose occasioni per attaccare la politica internazionale di Bush, ha perfino suggerito che di essere d’accordo con il presidente uscente, sia pure in senso lato e con qualche differenza.

Durante la campagna per la nomination del Partito Democratico, Obama si era accontentato di ripetere una stereotipa retorica idealista che, congeniale alla cultura dei media insensibile alle sfumature, era essenziale alla sua battaglia contro l’idealismo freddo della Clinton. Una volta fuori dal gioco la Clinton, ha cominciato a parlare sempre più di fatti: del terrore, di geopolitica, di giustizia sociale. Ha ridefinito la sua posizione sul ritiro delle truppe dall’Iraq e, da apparente colomba Democratica, si è spostato verso i toni pragmatici di uno che aspetta di diventare il comandante. La sua principale critica sull’Iraq non è stata la solita condanna dell’asserito avventurismo militarista di George Bush, ma la denuncia che questa guerra distraeva dalla questione, ora molto più urgente, rappresentata dall’Afghanistan.

Dal punto di vista filosofico, ciò che distingue la sua politica estera da quella di Bush non è il rifiuto di promuovere la democrazia nel mondo sottosviluppato, ma il fatto che Obama preferisce una formula con più carota e meno bastone. La sua convinzione è che se si fanno partecipare popoli e nazioni alla prosperità, essi tenderanno a diventare più amichevoli. Obama vuole persuadere la gente della bontà della forma americana di democrazia riempiendo le loro pance e le loro tasche, il mezzo per arrivare ai loro cuori e alle loro menti.

Ma Obama crede nell’esportazione della democrazia e afferma che la storia è dalla parte dell’America. Già subito dopo la sconfitta alle primarie di Hillary Clinton, cominciarono ad apparire commenti che sottolineavano il conservatorismo di Obama. Un profilo pubblicato dal New Yorker osservava: «Dà valore alla continuità e alla stabilità in sé, talvolta perfino più di quanto dia valore al cambiamento per il bene».

Non si pensava che fosse così. Obama è stato, ed è ancora, salutato come il campione di un risorgente idealismo degli anni ’60, nato sulla scia del Vietnam e alla ricerca di una seconda venuta fin dall’invasione dell’Iraq nel 2003. È venuto fuori dal nulla come l’icona nera di una generazione che rivive continuamente le fantasie della propria gioventù, il surrogato di Kennedy che avrebbe reso reale il sogno degli anni sessanta.

Ciò che è stato dimenticato da chi ha coltivato simili aspettative su Obama è che il momento sognato è concretamente già accaduto: nel novembre 1992, quando Bill Clinton è entrato alla Casa Bianca. E da questo è venuto fuori molto poco.