“Cambiamento”, “ceto medio”, “crisi”, “multilateralismo”: sono molte le parole che vanno a costruire il complesso puzzle di queste storiche elezioni presidenziali americane. In questo articolato scenario, cosa farà, o meglio, cosa sarà Barack Obama? Saprà dare seguito alla grande speranza con cui la sua elezione è stata accolta?
Impossibile rispondere adesso. Ma qualche previsione la si può fare. E una previsione particolare e certamente non scontata è quella del direttore del Tg1 Gianni Riotta: Obama stupirà innanzitutto sul versante dei «valori tradizionali», valori che egli sa originalmente incarnare al di là delle rigide distinzioni ideologiche tra progressisti e conservatori.
Direttore, partiamo dalla parola più usata per caratterizzare queste elezioni: cambiamento. In che senso gli americani sono andati al voto col desiderio di cambiare, e come Obama è stata la risposta alla loro domanda?
Il primo vero cambiamento lo hanno dimostrato gli americani stessi con la loro affluenza al voto: 130 milioni di elettori, contro i 120 dell’ultima tornata. Siamo tornati ai livelli delle elezioni del 1964, la cui percentuale di affluenza non è stata raggiunta per uno scarto dello 0,2%. Tutti gli americani hanno partecipato in massa, qualunque fosse la loro provenienza geografica o sociale. Cos’hanno voluto esprimere? Innanzitutto il desiderio di cambiare pagina rispetto alla politica di Bush, che si era molto allontanato dal Paese. Noi, dalla nostra prospettiva italiana ed europea, abbiamo molto enfatizzato l’aspetto della guerra all’Irak e dell’unilateralismo; ma gli americani sono stati molto più segnati da esperienze negative come quella dell’Uragano Katrina, quando videro un capo della protezione civile dire “è tutto ok” e andare alle corse dei cavalli. È solo un esempio, ma molto significativo. A tutto questo si è poi aggiunta la crisi economica.
E l’effetto negativo di questa immagine lasciata da Bush si è riversata su McCain.
La gente ha voluto mandare a casa quella leadership. E sebbene il povero McCain con questo non c’entrasse, e anzi abbia cercato con ogni mezzo di distinguersi da Bush e di contrastare molti dei suoi errori, ciononostante ha pagato l’identificazione con la politica attuata dal suo partito.
In positivo, invece, cosa significa questa domanda di cambiamento che gli americani hanno espresso?
Innanzitutto che è stata premiata la scelta coraggiosa e rischiosa del partito democratico; puntare su Obama infatti spaventava moltissimo, perché si trattava di un cambiamento veramente radicale, trattandosi di un nero, di un giovane, di una persona con poca esperienza. Gli americani non si sono lasciati impressionare da tutto questo, e hanno scelto un presidente che pensasse anche a chi non ce l’ha ancora fatta, a chi vuol fare quel salto che lo stesso Obama incarna. Guardando all’esterno, inoltre, gli elettori hanno scelto un presidente che mostrasse al mondo un volto dell’America più capace di ascoltare.
Altra espressione usatissima dai candidati è stata “middle class”, il ceto medio: che cosa si cela realmente dietro a questa espressione, e quanto e come ha pesato?
Il ceto medio ha paura di scomparire, impoverendosi, e questo è stato uno degli elementi essenziali di questo voto, e della vittoria di Obama. Si tratta di un tema fondamentale, ed è il problema su cui, per intendersi, Paul Krugman ha vinto il premio nobel per l’economia: la fine del patto sociale basato sull’aspettativa da parte dei giovani di fare una vita migliore rispetto a quella dei loro genitori. Tutti in America vorrebbero essere ceto medio, e il 95% egli americani si dichiara tale: i ricchi dicono di condurre una vita normale; i poveri dicono di vivere comunque una vita dignitosa. Ma al tempo stesso temono che questo non sia vero, o possa non esserlo più. Questa paura del ceto medio di scomparire, dunque, è stata la chiave di queste elezioni.
L’appoggio della destra religiosa fu un elemento importante della vittoria di Bush: i repubblicani hanno qualcosa da rimproverarsi sul fatto che McCain non sia riuscito a intercettare quell’elettorato?
Il problema è più complesso, e per capirlo vengono straordinariamente utili i dati californiani: trionfo di Obama, e vittoria del referendum per abolire le nozze gay. Tra gli elettori che nel 2004 non sono andati alle urne e che questa volta hanno dato il loro voto a Obama, una percentuale altissima ha detto no ai matrimoni gay. Dunque non è un voto semplicemente definibile come progressista; lo è forse sui temi sociali, ma sui temi etici è conservatore. Al contrario, molti bianchi “urbani” che hanno votato McCain magari per paura del terrorismo, sono poi molto più aperti sulla ricerca delle cellule staminali. Non si può dividere sommariamente tra destra e sinistra. Obama ha ben spiegato questo nel suo manifesto «L’audacia della speranza», dove dice che un conto è trattare dell’aborto come fanno gli opinionisti sui giornali, un altro è vivere il dramma di una femminista che in passato ha abortito e per questo soffre, o quello di una madre cristiana che vede questo dramma nella figlia diciassettenne. È sulla base di questo che mi sento di dire che proprio sui valori tradizionali Obama stupirà, ed è una caratteristica di cui pochi commentatori, soprattutto nostrani, si sono accorti.
Dall’ottima riuscita nei discorsi alla capacità di governare il passo è grande. Soprattutto in una situazione difficile come quella dell’attuale crisi. Cosa dovrà fare subito Obama per dimostrare di essere, nei fatti, all’altezza di questa emergenza?
Non ho naturalmente alcuna ricetta da suggerire per risolvere una crisi così complessa e drammatica come quella attuale. Dovendo però individuare un elemento prioritario per dimostrare di essere capace di governare e di fronteggiare attentamente questa situazione, dico che Obama deve innanzitutto calibrare con estrema attenzione la scelta del ministro del tesoro, riuscendo a scegliere una persona che sappia rassicurare i mercati e l’opinione pubblica. Un ministro come fu Robert Rubin per Clinton; naturalmente con la differenza che allora si era in un’epoca di espansione, mentre oggi si vive al contrario la recessione, se non addirittura depressione.
I rapporti con il resto del mondo: Obama imposterà la politica estera sulla base del “multilateralismo” tanto invocato dai detrattori di Bush?
Obama lo farà per il semplice motivo che è la realtà ad imporre questa scelta. Non lo farà certo perché è più buono: se potesse prendere decisioni da solo lo farebbe, come chiunque altro. Solo, capisce che non è più l’epoca in cui gli Usa possono prendere decisioni ignorando il resto del mondo. A questo punto, ed è un aspetto delicatissimo e veramente interessante, la palla passa agli europei. In questi anni l’Europa ha talmente detestato Bush da avere gioco facile. Bastava dire “no” a Bush, e tutto filava, perché l’opinione pubblica applaudiva. Quando dal 20 gennaio Obama verrà a chiedere di aiutarlo in Afghanistan, gli europei cosa risponderanno?
Come cambieranno i rapporti con l’Italia?
Erano ottimi, e tali resteranno. L’Italia è un paese filo-americano, e anche quando nel resto d’Europa è crollata la fiducia verso l’America, in Italia si è passati al massimo da un 80% a un 60%, rimanendo sempre su elevate percentuali di favore verso gli Usa. Anche nei momenti più neri, abbiamo sempre mantenuto questo atteggiamento di fiducia, e penso che rimarrà tale.
E i rapporti con la Santa Sede?
I rapporti tra Usa e Santa Sede continueranno ad essere molto buoni, soprattutto alla luce del fatto che Biden è il primo vicepresidente cattolico. Questo è un dato che, nella caterva di novità di questa tornata elettorale, non è stato sufficientemente rilevato. Biden è il primo vicepresidente cattolico nella storia degli Usa, e come tale non vorrà certo passare per quello che ha peggiorato i rapporti con il Vaticano. Quindi, la previsione ottimistica è che i rapporti migliorino; quella pessimistica è che rimangano uguali. Non ci sono motivi per pensare che debbano peggiorare.