Nella notte tra il 4 e il 5 novembre, mentre negli Stati Uniti, si contavano i voti per Barack Obama e per John McCain, i soldati israeliani sul confine sud di Gaza ricevevano l’ordine di attaccare. Un ordine che per la sua importanza veniva direttamente da Tel Aviv, sede del ministero della difesa israeliana, guidato dal ministro laburista Barak.
Ai soldati il compito di distruggere alcuni dei tanti tunnel che collegano Gaza all’Egitto e attraverso i quali passano non solo e non tanto “armi e droga”, come sbrigativamente si ripete, bensì cibo, sigarette, pezzi di ricambio, perfino pecore vive. Insomma gran parte di ciò che rende la vita a Gaza meno invivibile.
Tra israeliani e milizie palestinesi di Gaza, guidate da Hamas, inoltre, era in corso una tregua ormai da mesi, che stava funzionando. L’attacco israeliano, l’uccisione e il ferimento di alcuni miliziani di Hamas hanno prodotto quella reazione che era facilmente prevedibile anche a Tel Aviv: la ripresa dei lanci di razzi Qassam verso il deserto e le periferie di alcune città israeliane sul confine di Gaza. In questo modo, soprattutto, gli attuali governanti israeliani hanno posto sull’agenda del neo presidente americano il “problema Hamas” nei termini che a loro interessa: di contrapposizione militare poiché Hamas è una minaccia e non ci possono essere altre strade, politiche o diplomatiche.
Definire l’agenda mediorientale del candidato e ora presidente Barack Obama è stato lo sforzo dei politici israeliani, di governo e di opposizione. Un approccio, come si intuisce, che tradisce un’iniziale diffidenza verso un personaggio politico fino ad un anno fa praticamente sconosciuto anche in Israele.
Una diffidenza rafforzata, poi, dall’opposizione di Obama alla politica mediorientale di Bush, in particolare all’attacco americano e alla guerra in Iraq. E ancora, provocava timore l’insistere di Obama sulla necessità di usare una reale diplomazia aggressiva verso l’Iran, mettendo in secondo piano sul piano verbale l’opzione militare.
Infine, creava apprensione la presenza di consiglieri politici di Obama che avevano una conoscenza approfondita del problema israeliano-palestinese, ma difforme da quello dei governanti israeliani rispetto, soprattutto, all’approccio verso Hamas.
Queste perplessità israeliane hanno fatto sì che, all’inizio della campagna elettorale americana, le simpatie politiche israeliane andavano non solo, ovviamente, a John McCain ma anche a colei che sembrava poter essere il cavallo vincente: Hillary Clinton.. Quando era ancora senatrice ma già con ambizioni presidenziali, visitando Israele, nel momento di massima contestazione del muro che circonda Betlemme, riaffermò proprio lì tutta l’opportunità di questo strumento e degli sforzi israeliani per difendersi. Era dunque lei il vero candidato di molti israeliani e di molti ebrei americani.
Obama ha fatto molto per rassicurare e conquistare consensi tra gli ebrei americani. E i numeri, anche all’interno dei sei milioni di ebrei americani, lo hanno premiato. Ha visitato Israele prima delle elezioni, ha portato la sua solidarietà ai cittadini di Sderot, facendosi fotografare davanti a residui dei razzi Qassam . Ha affermato in modo talmente perentorio, da doversi poi correggere, che Gerusalemme rimarrà città unità e indivisibile sotto gli israeliani. L’ira di Abu mazen e lo stesso imbarazzo di Olmert lo hanno spinto poi a dire che le parti in causa decideranno il futuro della città. Ha inoltre allontanato dal suo staff un esperto consigliere non gradito agli israeliani, proprio per le sue analisi su Hamas e in ultimo ha ripetuto che l’Iran non potrà avere la bomba atomica e che neppure l’opzione militare può essere esclusa.
Tuttavia, ha allontanato da sé quelle sirene, americane e israeliane, che sostenevano la necessità di un attacco aereo contro l’Iran entro la fine dell’anno. In altre parole non ha dato quella sua copertura politica, indispensabile in una fase di transizione istituzionale. Di qui l’estremo tentativo della macchina propagandistica repubblicana, attraverso decine di migliaia di e-mail, di captare il voto degli ebrei americani, ipotizzando che Obama avrebbe dato il via libera al nuovo Hitler dei nostri giorni, individuato in Ahmadinejad.
Nel contempo i democratici e Obama non hanno posto obiezioni alle massicce forniture militari americane a Israele, decise dall’amministrazione Bush in questi ultimi mesi: in particolare, un nuovo avanzatissimo sistema radar antimissimile, ora in via di istallazione nel deserto del Negev sotto la supervisione dei militari americani e anche la fornitura di 75 nuovissimi cacciabombardieri d’attacco all’aviazione israeliana.
Sull’agenda di Obama, tuttavia, molti vogliono mettere le mani. E così si è aggiunto in questi giorni anche il caso Siria. Un attacco di elicotteri americani sul confine tra Iraq e Siria, che ha provocato otto morti, provocando anche il blocco delle relazioni diplomatiche tra Siria e Stati Uniti. Relazioni negli ultimi mesi in netto miglioramento dopo l’impegno siriano alla pacificazione in Libano.
In definitiva Barack Obama si trova davanti una coalizione politico militare, trasversale a più stati, che cerca di condizionarlo, nell’anteporre la rudezza dell’azione militare di questi ultimi anni in Medio Oriente alla tenacia dell’azione diplomatica.