Pragmatico, freddo, razionale. Ovvero Barack Obama. L’oratore straordinario della campagna elettorale, il politico visionario, l’uomo che sa riallacciare il mito del sogno americano, è solo uno dei volti del 44esimo presidente Usa. Buono per le campagne elettorali, non per governare dallo Studio Ovale. Per far danzare l’America, Obama sa che non basta essere il primo violino, ma occorre un’orchestra ben amalgamata. Tante voci intonate non fanno un coro. Obama ricorre a Lincoln, al suo team dei rivali per spiegare la ricetta da seguire per comporre la sua Amministrazione. All’inizio, ancora sull’onda della sbornia elettorale, gli elogi per questo approccio fioccavano. Oggi qualcuno storce il naso. La popolarità di Obama è sempre altissima, eppure qualche nube si addensa. La colpa è proprio della sua sapiente scelta nel comporre la squadra. Perché la lista dei delusi è lunga. E guarda caso i mugugni vengono dall’ala sinistra del partito democratico, dal mondo dell’associazionismo progressista: i sindacati lamentano che nessun uomo vicino a loro abbia ottenuto incarichi di prestigio; i network (dai blogger alle organizzazioni come OpenLeft, sino a Daily Kos) si sentono traditi. Scelte centriste e moderate per i posti chiave. Briciole per quelli che avrebbero invece portato l’agognato cambiamento nei corridoi di Washington. Obama è un pragmatico. E da pragmatico governerà. Se quanto visto nelle prime settimane da presidente eletto è un indizio, allora Barack Obama se ne infischierà dei sondaggi; guarderà all’interesse dell’America prima che al suo tornaconto personale e soprattutto sarà un presidente di “destra”. Eresia? Forse. Diciamo, più semplicemente, una provocazione. Ma con buone e fondate basi. Basta scorrere la lista, con tanto di profili e background dei suoi “nominati” in campo economico, sulla sicurezza e per la diplomazia, per rendersi conto che il panorama è dominato da moderati, realisti e qualche falco. Ovvero il contrario di quanti pensavano che Obama, preso il potere con la sinistra avrebbe continuato sulla “retta” via. Invece Barack Obama assomiglia più a quanto diceva Eduardo Galeano: «Il potere è come il violino: si prende con la sinistra e si suona con la destra».
La squadra economica: Tim Geithner sarà il segretario del Tesoro. E’ direttore della Fed di New York, ha lavorato al Tesoro Usa negli anni ’90. E’ il classico funzionario pubblico. Capacissimo e decisionista. Negli ultimi tre mesi ha lavorato fianco a fianco con Henry Paulson (di cui prenderà il posto) per risolvere la crisi finanziaria. Le cronache e gli analisti dicono che Geithner sia stato negli anni ’90 e anche da numero uno della Fed un sostenitore della politiche di deregulation (pur non sfrenata) che hanno condotto ai guai di questi mesi. Pensarlo a rivedere i capisaldi del suo pensiero economico appare improbabile. Anche perché la visione di Obama è chiara su questo: la crisi è un’opportunità per riformare il sistema Usa della sanità, dell’istruzione e della composizione del budget. Significa anche, forse soprattutto, sforbiciare, tagliare e cancellare i programmi inutili e dispendiosi. Anche quelli che vanno nel sociale. Geithner, tirata fuori l’America dalle secche della recessione, probabile o inevitabile a seconda dei punti di vista, dovrà imprimere una direzione nuova alla politica economica Usa. Che non è proprio quella del tassa e spendi con cui Obama aveva conquistato le primarie, prima di smorzare i toni nel duello con McCain. A controllare sul processo ci sarà Larry Summers, ex segretario al Tesoro di Clinton, protége di Bob Rubin, avversario di qualsiasi protezionismo e sostenitori dei tagli fiscali per la classe media. Summers sarà una sorta di eminenza grigia, di super consigliere di Obama. Negli anni di Clinton, Summers ha gestito la globalizzazione, ha annullato il deficit di bilancio creando anzi un surplus. Christina Romer è una studiosa di Berkeley, che, sintetizziamo in modo approssimativo e rozzo, da anni sostiene che le tasse rallentano la crescita. Qualcuno l’ha descritta addirittura come una reaganiana del terzo millennio. Il fatto che guiderà il Council on Economic Advisors la dice lunga sulla direzione che in materia economica prenderà la Casa Bianca di Obama. Certo sarà il presidente a tenere le redini. I capisaldi della sua visione poggiano su un “new New Deal”. Interventismo pubblico, investimenti nelle infrastrutture e creazione di posti di lavoro. Ma questa agenda radicale sarà nelle mani di economisti decisamente “centristi”.
Sicurezza e diplomazia: L’uomo più interessante è James Steinberg. Sarà il vice – a meno di ripensamenti dell’ultima ora – di Hillary Clinton al Dipartimento di Stato. Steinberg è stato negli anni ’90 un vice consigliere per la Sicurezza nazionale. Ha diretto gli studi di politica estera della Brooking Institution ed è considerato un “falco” perché ha detto e scritto in passato che la dottrina della guerra preventiva formulata (ma non inventata) da Bush è troppo restrittiva. Secondo Steinberg infatti l’uso della forza preventiva può essere impiegato anche contro nazioni che non difendono e proteggono i loro cittadini. Un esempio potrebbe essere, azzardiamo, il Darfur. Bush lega la “preemption” alla sicurezza; Steinberg anche ai diritti umani. Non è un salto piccolo. Inevitabile però che tutte le attenzioni siano su Hillary Clinton. Oggi (lunedì) sarà nominata segretario di Stato. Negli anni al Senato ha maturato una discreta esperienza. Da first lady ha visitato oltre un’ottantina di Paesi e intrecciato rapporti con organizzazioni, associazioni oltre che con funzionari governativi ad ogni latitudine. Non ha una formazione ad hoc accademica (come Condy Rice o Madeleine Albright), ma ha i numeri e il background per gestire la grande macchina diplomatica Usa. Ovvi i dubbi sulla figura del marito Bill, dei suoi molteplici e ramificati interessi, finanziari e politici. Ma Hillary non sarà la marionetta né di Bill né di Obama. Il suo record di voti al Senato la pone spesso a destra (anche di molti repubblicani) in materia di difesa e sicurezza. Sull’Iran ad esempio sostenne di mettere sulla lista nera del terrorismo i Pasdaran, che significa in pratica liquidare come terrorista tutta la Repubblica islamica. Sull’Iraq è sempre stata scettica a fissare date per il ritiro. E in fondo la linea attuale, quella di Petraeus, si avvicina molto di più a quella sostenuta da Hillary in campagna elettorale che a quella di Obama.
Non è un caso che già i primi rumors sulla sua nomina al posto della Rice abbiano scatenato una striscia di reazioni negative a sinistra, e molte positive a destra e fra i neoconservatori. Questi, il cui potere negli anni di Bush è stato troppo sopravvalutato, vedono nella Clinton un difensore strenuo e per nulla morbido degli interessi americani e della democrazia. Dall’altra parte del fiume Potomac resterà, almeno per un po’, Bob Gates. Il capo del Pentagono dovrà porre fine alla guerra in Iraq (come vuole Obama), ma lo farà secondo lo schema di Petraeus (e di Bush). Sembra un paradosso, ma il candidato che negli ultimi due anni ha invocato il ritiro delle truppe da Baghdad e contestato in ogni momento le decisioni delle Casa Bianca, si trova oggi a beneficiare proprio dei risultati positivi del surge e dell’accordo fra Parlamento iracheno e Casa Bianca di smobilitare entro il 2011. Consigliere per la Sicurezza nazionale, ovvero il grande mediatore delle tensioni (quasi sempre inevitabili) fra Dipartimento di Stato e Pentagono, dovrebbe essere James Jones, l’ennesimo generale dai tempi di Brent Scowcroft e Colin Powell a ricoprire l’incarico. Critico della condotta della guerra in Iraq di Rumsfeld, Jones è stato comandante della Nato. Dicono di lui che anche se avesse vinto McCain avrebbe ricoperto lo stesso incarico.
Obama non ha mai fatto mistero di essere un sostenitore della politica estera di Bush senior, il presidente realista per antonomasia del dopo Nixon. Ovvero difesa della sicurezza e degli interessi nazionali; un certa riluttanza a impiegare la forza e la contrarierà a impiegare le truppe Usa in guerre dove gli interessi Usa non fossero evidenti. Resta incastonata nella storia la frase con cui James Baker, segretario di Stato di Bush senior, liquidò il caso Balcani: “We have no dogs in that fight”, insomma non ci interessa nulla, non abbiamo niente da difendere, è da guadagnare. Obama non è Bush senior. In lui la tensione alla democrazia, ai diritti umani e un certo idealismo wilsoniano sono ben presenti. Ma già il fatto che abbia composto una squadra di politica estera e di sicurezza infarcita di realisti e pragmatici lascia intravvedere la direzione di marcia della sua Amministrazione. Sempre al netto di sorprese, molte e imprevedibili come insegnano gli eventi di Mumbai.