La recessione è globale e il Fmi ha lanciato l’allarme per il 2009, che si preannuncia difficoltoso per tutte le economie mondiali. Mentre i governi tra Stati Uniti ed Europa mettono a punto le misure anticrisi, con un occhio al debito pubblico e l’altro ai consumi e alla domanda interna, si diffonde l’apprensione per l’economia del gigante asiatico, che ha mostrato segni preoccupanti di rallentamento: -2,2% dell’export a novembre e -12% le esportazioni, e la produzione industriale ha fatto segnare -5,4%. Per la Cina sono dati inediti almeno dal 2000. Cosa cambierà? Ilsussidiario.net lo ha chiesto a Francesco Sisci, inviato de La Stampa a Pechino.



Lo Stato ha stanziato quasi 600 mld di dollari per far fronte alla crisi…

Il governo ha inaugurato dei piani infrastrutturali che dovrebbero, nell’arco di sei mesi un anno, compensare il crollo dell’industria delle esportazioni e portare crescita nelle zone interne. È di oggi la notizia che la costruzione di grandi canali che dovrebbero portare le acque dal bacino del Chang Jiang (Fiume Azzurro) al bacino dello Huang He (Fiume Giallo), da sud a nord, è stata accelerata. Queste opere dovrebbero essere il motore della crescita nel breve periodo. Nel medio-lungo termine, invece, i piani sono di accelerare la crescita nei servizi.



Cosa intende fare il governo?

Il governo intende investire nei servizi, per esempio potenziando il welfare con nuovi piani pensione. Fino agli anni ‘90 il welfare era soltanto parziale perché erano coperti gli abitanti delle città, vale a dire il 20% della popolazione, ma erano completamente esclusi gli abitanti delle campagne. A metà degli anni ‘90 il welfare è stato azzerato e ora lo si sta ricostruendo su base nazionale.

In che modo?

Si tratta di un welfare “all’americana”, in cui il singolo è cointeressato nel pagamento delle assicurazioni. Per esempio, c’è un piano welfare per le campagne in materia sanitaria, in cui la spesa è articolata in quattro voci: una parte verrà pagata dal governo centrale, due parti dal governo provinciale e l’ultima parte dal contadino stesso. È un piano che può venire implementato solo lentamente perché i numeri sono enormi: oggi quelli che hanno un’assicurazione sono circa 130-140 milioni di persone, una percentuale minima se pensiamo che riguarda appena il 10% della popolazione, ma bisogna pensare che alla fine degli anni ‘90 le assicurazioni non esistevano.



La crisi economica ha già avuto ripercussioni? Ci sono attualmente casi di sofferenza sociale?

Sono milioni i posti di lavoro che si stanno già perdendo, soprattutto nell’industria media e piccola e lungo la fascia costiera. Ma è una crisi sociale che esula dai canoni ai quali siamo abituati, perché interessa una fascia di lavoratori già precaria, chiamati “emigranti temporanei”: contadini che si sono trasferiti in città con un permesso di lavoro temporaneo ma che proprio per questo conservano il proprio pezzo di terra nelle campagne. Se perdono il lavoro in città torneranno a fare i contadini. Questa prerogativa è in grado di funzionare, almeno parzialmente, come una sorta di ammortizzatore sociale.

Le imprese chiudono?

Molti imprenditori in difficoltà hanno abbandonato il territorio lasciando i lavoratori senza paga. E monteranno proteste. Si tratta di imprenditori taiwanesi, sudcoreani, anche cinesi, in generale comunque imprenditori asiatici.

La crisi è attualmente per tutti i paesi del mondo una sfida al cambiamento. Il governo si rende conto di essere di fronte a scelte che probabilmente aprono la strada a riforme irreversibili?

Sì. I cinesi hanno capito benissimo che siamo di fronte alla caduta dell’ordine economico che si era creato dopo la fine della seconda guerra mondiale. Il governo cinese ha già messo in conto una crisi che durerà dai quattro ai dodici anni. Il punto, naturalmente, è cosa fare. È ovvio che la Cina è la prima interessata a che l’America recuperi capacità di risparmio e di spesa e maturi prospettive di crescita a lungo termine. Una via d’uscita è una grande alleanza economica con gli Usa, basata sul trasferimento tecnologico dagli Usa verso la Cina, con la Cina che ripaga questo trasferimento in termini di concessioni politiche e strategiche.

È una prospettiva credibile? A che prezzo per la Cina?

I cinesi sono disposti a pagare questo patto strategico con un elevato prezzo politico: concessioni politiche e democratizzazione all’interno, ma anche scelte strategiche come l’appoggio a una politica americana all’estero. La moneta di scambio potrebbero essere ingenti trasferimenti tecnologici.

Si è già cominciato a parlarne?

Sì. Nella sua recente missione a Pechino, il segretario al Tesoro Usa Henry Paulson ha parlato di trasferimento di tecnologia per il settore energetico. Ed è un tema cruciale, perché riguarda anche le centrali atomiche. C’è, in buona sostanza, la consapevolezza che la via d’uscita dalla crisi americana non può non passare per la Cina. E viceversa. Allora: o aspettare che l’incendio bruci completamente la finanza e quindi l’economia americana, o cercare un’alleanza con la Cina, che è la seconda economia mondiale, e che dal canto suo sa bene di non poter rimpiazzare l’America.