Terminato il momento delle celebrazioni, finita la campagna elettorale, indicati i nuovi titolari dei Dicasteri, si può aprire ufficialmente l’era Obama. Tra continuità e cambiamento, a pesare, per ora, sono le aspettative altissime. Come tutti i momenti di passaggio, si oscilla tra dichiarazioni di intenti e bilanci del pregresso. A fare il bilancio, in questi giorni, è il Presidente uscente George W. Bush, che ha ammesso pubblicamente di aver commesso un errore storico nella valutazione delle conseguenze della guerra in Iraq.



Ma è già tempo di voltare pagina e di pensare al futuro, posto che, come dimostrano i recenti attacchi di Mumbai, le minacce non attendono i tempi della politica o delle transizioni istituzionali. Le nomine decise da Obama non rappresentano una rivoluzione. Tutt’altro. Esse sono piuttosto l’indicazione di personalità autorevoli dell’intellighenzia democratica e dei pensatoi progressisti, in buona parte navigati membri di precedenti amministrazioni. Un tentativo cioè di trasferire all’arena politica idee marginalizzate per ben otto anni, in un contesto di riferimento decisamente mutato.



I nomi di Zibi Brzezinski, James Jones, Janet Napolitano e Hillary Clinton non sono novità assolute. L’America di Obama si presenta al mondo con una missione difficile: restituire all’America consenso e credibilità.

Molti dei punti principali sono già stati affrontati in campagna elettorale: l’America tornerà al centro di alcuni tavoli multilaterali, a cominciare da quello per la revisione del protocollo di Kyoto. La chiusura di Guantanamo è poi un passo importante nella direzione di una compartecipazione di un modello etico di politica internazionale, magari preludio alla partecipazione Usa al Tribunale Penale Internazionale.



Ma molti degli obama-entusiasti rischiano di rimanere delusi dalle prime mosse in politica estera che vedremo da gennaio. Il cuore dell’iniziativa politica si sposterà dall’Iraq al confine tra Afghanistan e Pakistan. Obama chiederà all’Europa più truppe, più soldi, più impegno e questa sarà la sfida principale che il Vecchio Continente dovrà raccogliere. La nuova Amministrazione si concentrerà anche sul dossier iraniano, aspettando con ogni probabilità l’esito delle elezioni a Teheran, per poi aprire un negoziato sul delicato dossier dell’arricchimento dell’uranio.

Con Mosca le tensioni dovrebbero rientrare e l’America potrebbe pensare a un raffreddamento del programma di scudo spaziale, aprendo però un tavolo strategico, sul modello Helsinki, con Mosca, per la riduzione degli armamenti strategici.

La “green devolution” annunciata dal neo – Presidente dovrebbe anche diminuire la dipendenza relativa dall’America dalle forniture di petrolio.

Ma il vero rapporto strategico che Obama e i suoi Ministri vorranno intraprendere sarà quello con la Cina. L’interdipendenza economica e commerciale, gli interessi da grandi potenze che sfidano i due mega-contendenti sono la priorità numero uno del governo americano. Questo sarà il vero cambiamento di prospettiva nell’arena internazionale. Non il multilateralismo ma un “passo a due” che potrà vedere l’Europa solo in una posizione marginale; a meno che non si riprenda un certo attivismo diplomatico e commerciale e svolga “buoni uffici” tra le due parti.

Per il resto, poco cambierà. La lotta al terrorismo continuerà dura e pressante; i soldati verranno parzialmente ritirati dall’Iraq, cominciando dalle forze speciali, per poi arrivare a lasciare nel Paese dei presidi militari in aree strategiche (il nord curdo e l’area della capitale).

Nessuna grande rivoluzione del sistema, ma un cambiamento nel sistema che avrà delle conseguenze importanti anche per noi europei, chiamati a dimostrare che i proclami per la “fine dell’era Bush” si trasformino poi in una concreta volontà politica di concertazione.