Hanno ammazzato il nostro responsabile del settore educazione con una raffica di Ak mentre era in missione per Avsi nel territorio di Rutshuru (Nord Kivu, Repubblica Democratica del Congo). Bauduin, 52 anni e 6 figli. L’autista, Deo Gratias, è rimasto ferito. Una pallottola al ventre e una nella mano sinistra. Se l’è cavata con l’amputazione di un dito e un intervento chirurgico ben riuscito. Un’imboscata. Hanno aperto il fuoco sull’auto e hanno rubato 63 dollari e un telefono cellulare.
È successo lo scorso 15 dicembre. Avevamo appena riaperto gli uffici dopo averli chiusi per tre giorni in segno di lutto, a causa della morte di Ernest Rubase, capo logista di Avsi a Goma. Ernest, un amico di vecchia data. Se n’è andato per un’ischemia celebrale dovuta all’ipertensione. Cose che capitano, ci ha detto il medico del migliore ospedale dei dintorni.
Già. Capitano ovunque. Certo che in guerra capitano di più. Ernest era in cura da un anno. Ma la sala rianimazione dove è stato ricoverato consiste in una barella con un materasso di plastica nera e una flebo. Tutto qui. Forse, altrove, in un Paese con medici e ospedali decenti, l’ipertensione saremmo riusciti a curarla insieme così come si cura l’ipertensione di milioni di occidentali. O forse no. Forse era soltanto la sua ora. Il problema è che il dubbio rimane. Il problema è che è evidente e lampante che si sarebbe potuto fare di più se solo qui, a Goma, esistesse una sala rianimazione con qualcosa di più che una flebo.
Due settimane fa, l’Onu ha pubblicato un rapporto sulla strage di Kiwanja (Nord Kivu, Rdc). Almeno 150 civili massacrati, dicono i caschi blu. La gente del villaggio non esita, tra le lacrime, a raddoppiare la cifra. I morti sono di tutte le etnie. Il 26 di dicembre, un gruppo di ribelli che opera nella regione dell’Ituri (Ituri, Rdc) ne ha ammazzati altri 180. Molti di loro sono stati fatti letteralmente a pezzi in una chiesa, a colpi di machete.
Tutto questo a nemmeno due mesi dall’ultima evacuazione di Goma (Nord Kivu, Rdc).
Cerco di mettere insieme i pezzi di un lavoro e di una vita che talvolta sembrano perdere di senso.
Commetto l’errore di aprire un sito web per leggere qualche notizia. In Zimbabwe muoiono a decine di migliaia per il colera. La Somalia sembra essere arrivata all’ennesimo vicolo cieco. Israele dichiara che i bombardamenti a Gaza sono «la prima di una serie di fasi» e tutti gli analisti del Medio Oriente si chiedono quali ripercussioni potrà avere la crisi.
Stempero il malumore leggendo un pezzo sul nuovo presidente degli Stati Uniti. I media gli hanno chiesto se intende fumare alla Casa Bianca oppure rispettare il no smoking imposto da Hillary Clinton quando era first lady. Sarebbe troppo facile e cinico chiedersi se nell’era post Monica abbia emanato divieti d’altra natura, ma sarebbe in linea con lo spazio che la stampa internazionale dedica alle 8 sigarette quotidiane di Obama.
Quattordici studenti uccisi da un’auto bomba in Afghanistan. Tutti sotto i dieci anni.
Un sospetto omicida rischia l’iniezione letale negli Stati Uniti. È la terza volta che l’esecuzione viene sospesa poche ore prima di essere messa in atto. I testimoni che lo accusavano hanno ritrattato (9 su 11, se ricordo bene), ma le procedure giudiziarie complicano la cosa. Non ci sono nuove prove tangibili per riaprire la causa e lo stesso imputato non può essere processato due volte per lo stesso crimine. I magistrati discutono. Chissa lui, che cosa fa.
Spengo il computer.
Non che da queste parti sia meglio. Come al solito, come sempre negli ultimi 12 anni, le truppe si muovono, gli eserciti si riarmano e fanno nuove reclute. È solo questione di tempo. Non è mai stato il caso di chiedersi se ci sarà o no la guerra. La domanda è quando. Oggi? Domani? Tra un mese? I profughi restano profughi e muoiono anche per una bronchite. E restano circa un milione e mezzo di anime, tanto per fare statistica.
A che cosa serviamo, noi? Per quale bizzarro o egoistico motivo, esistiamo? La cooperazione internazionale. Siamo in giro per il mondo per “fare del bene”, anche se resta da stabilire se lo facciamo agli altri o a noi stessi.
Negli ultimi tre mesi, la Repubblica Democratica del Congo è stata sotto i riflettori dei mass media internazionali. Quei riflettori, ora sono spenti. La guerra no. Non è spenta. La guerra brucia.
Tuttavia, ogni esperto di politica estera che ha avuto modo di scrivere sulla Rdc, ha scritto una cosa precisa: il conflitto ha radici economiche. Grandi potentati dell’occidente acquistano qui materie prime a basso costo. Per farlo, armano eserciti o governi compiacenti.
E poi l’occidente, quello stesso occidente che a dire dei suoi esperti è il responsabile ultimo del massacro, mette una pezza e paga i nostri salari da cooperanti internazionali. Con la mano sinistra uccide, con la destra si sciacqua (tenta di sciacquarsi) il viso e la coscienza.
Cosa facciamo, qui? Siamo convinti sostenitori della pace e della solidarietà o soltanto piccoli ingranaggi di un meccanismo che ci utilizza (e noi assecondiamo per interesse personale) al solo fine di raggiungere i suoi scopi? Siamo qui per firmare ordini di missione per Bauduin e inviarlo a Rutshuru per raggiungere gli obbiettivi di un progetto finanziato dalle Nazioni Unite? E per poi ritrovarci sulle spalle una grande jeep coperta di pallottole e sangue, un cadavere sotto terra e una famiglia in frantumi?
In questa notte difficile, non lo so più.
Ma so che trovare una risposta è necessario, doveroso, eticamente e moralmente imprescindibile.
Domattina qualche risposta ce l’avrò. Quelle semplici, quelle che mi faccio bastare.
Domattina rivedrò le tante persone con le quali si lavora insieme da anni e da anni si cerca davvero (ci si riesce?) di costruire la pace. Condividendo esperienze, imparando gli uni dagli altri, mischiando culture e abitudini non senza difficoltà. Domattina mi dirò che le cose grandi vanno fatte un passo alla volta e che ogni passo è importante. Domattina cercherò di ricordarmi che questo mondo enorme è solo la somma di tante persone e che per migliorarlo bisogna migliorare quelle persone, cominciando da noi stessi. Noi stessi. Scintilla e motore d’ogni qualunque cambiamento.
Ma chi migliorerà i manager di una multinazionale che compra quei diamanti che forse sono serviti per pagare il fucile che ha ucciso Bauduin? Gli stessi che forse fanno annualmente delle sostanziose donazioni per finanziare progetti d’intervento umanitario in Africa (beneficiando persino di sgravi fiscali).
Io non ce la faccio. Non ne conosco nemmeno uno, di quei manager lì.
A loro non auguro un 2009 di serenità, perché temo che la loro serenità possa coincidere con la morte di milioni di persone. A loro auguro, di tutto cuore, un 2009 con bilanci in rosso, titoli in calo e Hedge Founds in fallimento. Finanza etica. Mercato etico. È possibile. Ma per metterlo in pratica, bisogna additare e combattere ciò che etico non è. Far soldi sulla pelle degli altri non è etico.
È omicidio. Anche in giacca e cravatta, resta omicidio.
A tutti gli altri, a quelli che si fanno bastare le motivazioni piccole per andare avanti un giorno dopo l’altro, a quelli che ancora credono in qualcosa perché credono che non credere sia peggio, sia sbagliato e sia impossibile, auguro invece un 2009 stupendo. Un anno di canti e frastuoni. Un anno di pace.