L’ultimo affondo contro Hillary Clinton l’ha portato Maureen Dowd, graffiante penna liberal del New York Times. L’editorialista ha demolito le ambizioni presidenziali della ex first lady e l’ha accusata di giocare una partita al massacro dentro il Partito democratico per danneggiare la corsa di Barack Obama. Insomma “o vinco io, oppure un repubblicano”, è l’azzardo dello staff della ex first lady. La ricostruzione della Dowd è in parte una caricatura; tuttavia essa ha il pregio di cogliere l’essenza di questo lungo braccio di ferro in casa democratica. Ovvero l’incapacità di quella parte dell’establishment democratico che ruota attorno ai Clinton di fare un passo indietro e accettare la vittoria di Barack Obama, l’outsider diventato, nel lungo ed estenuante rush finale, il predestinato.
Obama è avanti
I numeri oggi stanno dalla parte del senatore di colore dell’Illinois. A quattro settimane dal voto in Pennsylvania (22 aprile), Obama ha 158 delegati di vantaggio sulla rivale, un margine non ampio ma che, visto il sistema di voto proporzionale che regola le primarie democratiche e l’assottigliarsi del calendario elettorale, gli permetterebbe di arrivare alla Convention del partito di Denver (25-28 agosto) in testa. Per rovesciare le sorti, la senatrice di New York ha solo una freccia nel suo arco: convincere i 794 super-delegati (governatori, deputati e senatori, notabili del Partito) a votare per lei a Denver sovvertendo il giudizio popolare. Uno scenario che terrorizza i capi democratici a partire da Nancy Pelosi, speaker alla Camera, che da qualche settimana va ripetendo che i superdelegati dovrebbero limitarsi a ratificare quanto emerso dalle urne nei singoli Stati.
Ma Hillary è ancora pugnace
Intanto l’ex first lady sta combattendo una battaglia con assoluta determinazione e una ritrovata verve per dimostrare al partito, notabili ed elettori, di essere l’unica candidata con l’esperienza giusta per guidare la nazione. E’ riuscita, ad esempio, a frenare l’entusiasmo per Obama mettendo a nudo i limiti del giovane collega in materia di politica estera ed economica. E questo le ha portato la duplice vittoria in Texas e Ohio del 4 marzo, giorno in cui Obama confidava di vedere la rivale uscire di scena. Quindi ne ha denunciato le posizioni progressiste sui temi sociali e socio-economici. Lo ha bollato come un “liberal”, etichetta che nella percezione degli americani non è sempre un gran complimento. O meglio, è l’anticamera della sconfitta come dimostrano i casi di Michael Dukakis e Walter Mondale negli anni ’80 e di recente John Kerry.
Come finirà?
Se Hillary Clinton è stata abile a smascherare – pungolando fra l’altro i media a fare altrettanto – Obama e a costringerlo a scendere nell’arena dei contenuti dopo una campagna elettorale giocata impugnando l’arma della retorica, resta il quesito: perché ha atteso tanto a sguainare la spada?. La sua corsa ora è in salita. Certo per Obama ogni attacco d’ora in poi sarà una prova generale di quello che gli capiterà contro John McCain. Che intanto osserva, prende appunti, detta l’agenda politica e i temi della campagna di novembre. Forse Maureen Dowd ha ragione. E’ Hillary il vero killer di Obama.