La barbara uccisione di padre Youssef Adel a Baghdad, che si aggiunge a quella di pochi giorni fa dell’arcivescovo caldeo di Mosul, monsignor Paulos Faraj Rahho, è l’ennesimo episodio di violenza ai danni dei cristiani in un Iraq che non trova pace. Ed è l’ennesima conferma di una strategia perseguita lucidamente da chi vuole destabilizzare il Paese, colpendo le minoranze e quanti operano per la convivenza tra culture e identità diverse. Il sacerdote siro-ortodosso era noto per il suo impegno a favore del dialogo e della convivenza interreligiosa, e lavorava in una scuola superiore gestita da cristiani e che ospitava molti studenti musulmani. Insomma, una piccola-grande testimonianza che è possibile vivere insieme. Una testimonianza che infastidisce chi vuole trasformare l’Iraq in un Paese asservito alla sharia e in avamposto del terrorismo jihadista.
Fino agli anni Novanta, i cristiani – ora accusati dai terroristi islamici di «sostenere i crociati invasori» – erano circa un milione, tra il 2-3% dell’intera popolazione. Adesso, secondo alcune stime, ne sono rimasti meno di 400.000, dopo un esodo in massa provocato dalla guerra, dalle violenze contro le loro comunità e da esplicite minacce di morte rivolte ad esponenti del clero e a molti cittadini comuni.
L’obiettivo dei terroristi è costringere i cristiani a concentrarsi nelle regioni curde a Nord accettando nei fatti una divisione etnico-religiosa del Paese, alla quale dovrebbe seguire l’esodo finale fuori dai confini. Un esodo che hanno già conosciuto migliaia di famiglie che in questi anni si sono accampate nei campi profughi della Giordania, in Siria, in Libano, nella speranza di poter fare ritorno nelle loro case quando la situazione si sarà normalizzata, o che hanno intrapreso le vie dell’emigrazione in Europa e negli Stati Uniti, dove hanno raggiunto le numerose comunità della diaspora.
È una dura resistenza quella che i cristiani iracheni stanno vivendo, opponendosi alla divisione etnico-confessionale che li vedrebbe relegati in una piccola regione a loro destinata. Non accettano la logica del ghetto e ribadiscono la volontà di restare cittadini a pieno titolo di una nazione che da secoli è multietnica e multireligiosa. E in questo senso si sono ripetutamente pronunciati in tempi recenti numerosi esponenti delle gerarchie ecclesiastiche.
Non è in gioco solo il futuro di una confessione religiosa, ma quello dell’intero Paese. Oggi più che mai è necessario che la comunità internazionale vigili sui suoi destini e si renda protagonista di una rinnovata (e non facile) azione diplomatica. Non solo per scongiurare la scomparsa dei cristiani, da sempre abitatori della “terra tra i due fiumi”, ma per consentire la continuazione di quella convivenza tra etnie e fedi religiose che rappresenta il tratto distintivo di quella nazione.



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