La ricerca della pace dovrebbe essere la principale preoccupazione degli uomini e dei governi. Tuttavia, al di là delle speculazioni filosofiche, la sua assenza è dettata in primo luogo dalla competizione che esiste naturalmente tra comunità organizzate per risorse che sono finite. Risorse energetiche, alimentari, culturali, sociali.
Questo primo scorcio di XXI secolo ripropone fortemente il tema della pace e degli squilibri. Un secolo segnato da una rinnovata competizione, dalla fine del momento unipolare che ha seguito il crollo del Muro di Berlino, con la sostituzione dell’ordine bipolare verso una gestione “solitaria” delle relazioni internazionali da parte dell’unica superpotenza rimasta nella storia, gli Usa. Il mondo della globalizzazione, la cui cifra è l’interdipendenza dei fenomeni, apre un nuovo momento della vita delle nazioni, improntato ad un equilibrio di potenza più evidente, un multipolarismo alla ricerca di obiettivi condivisi, di equilibri e di nuove identità. Le nuove relazioni internazionali devono fare i conti con nuovi e vecchi squilibri: la fame perpetua di una buona fetta della popolazione mondiale, una nuova mappa geoeconomica nell’energia, nuovi identitarismi di matrice religiosa che troppo spesso sfociano nella lotta armata o nel terrorismo. Sono le sfide poste da un’arena globalizzata, che se non adeguatamente governata, rischia di lasciarci un mondo senza controllo. Questa è la sfida più grande e complicata, quella del governo dei processi globali, la cui assenza lascia dei vuoti che, come insegna la fisica, vengono riempiti dal caos, quello del terrorismo, delle armi di distruzione di massa, dei conflitti a base etnica o religiosa.
La sfida contemporanea della pace è quindi la sfida del governo di processi che sono ormai irreversibili. Se la comunità internazionale riuscirà a trovare l’equilibrio tra legittime aspirazioni di progresso e di “potenza” e l’affermazione dei valori universali, allora la pace sarà più vicina.
Quale può essere il metodo per perseguirla? Un’ipotesi plausibile è quella di promuovere l’universalità dei diritti – non dei valori -, che dovrebbero assurgere a bussola della vita dei popoli e degli Stati. L’esportazione della democrazia ha dimostrato di funzionare poco e male. Ma il principio dell’universalità dei valori della vita, della dignità dell’uomo, del suo diritto di professare un credo non possono essere più oggetto di compromesso.
Da qui dovremmo ripartire per avviarci sul sentiero di una pace possibile, a costo magari di altri sacrifici, ma che potrebbero davvero essere gli ultimi prima di godere di una pace non utopica, non filosofica, ma concreta.