La cronaca è crudele. Ieri al Meeting di Rimini è stato riaffermato che le religioni non sono e non devono essere fattore di violenza e di divisione e oggi leggiamo sui giornali che in India due cristiani sono stati bruciati vivi da estremisti indu.
Ma se cerchiamo di capire, scopriamo che la religione c’entra solo fino a un certo punto. E per capire abbiamo chiesto a padre Bernardo Cervellera, direttore dell’informatissimo sito Asianews.it, che sta assiduamente informando sulla critica situazione indiana.
Padre Cervellera, anzitutto i fatti.
Siamo nel distretto di Kandhamal, nello stato dell’India orientale di Orissa. Ieri, in due diversi incidenti, sono morti la missionaria laica Rajani Majhi di 21 anni, arsa viva mentre cercava di salvare gli ospiti di un orfanotrofio della missione di Bargarh, e un uomo, anch’egli bruciato vivo. I responsabili sono gruppi di radicali indu. Quello di ieri, però, non è che l’ultimo di una lunga serie di episodi di violenza che da mesi vede i cristiani della zona attaccati da fanatici indu.
Chi sono?
In sostanza si tratta dei membri del VHS (Vishwa Hindu Parishad), un gruppo militante che ha accusato i cristiani di aver ucciso il loro leader Swami Laxanananda lo scorso 23 agosto. In realtà la polizia ha identificato come autori di questo assassinio i gruppi maoisti, che avevano già minacciato il leader estremista indu. Il quale, a sua volta, è stato il responsabile della precedente fiammata di violenza contro i cristiani lo scorso mese di dicembre. È una catena di violenze che continua da molto tempo.
Perché questi gruppi indu ce l’hanno coi cristiani?
Li accusano di comperare le conversioni dall’induismo al cristianesimo attraverso le loro opere caritative e assistenziali. L’accusa è ovviamente pretestuosa. Non solo perché i cristiani, in quella zona come ogni parte del mondo, fanno opere di carità per amore della persona e non per estorcere conversioni, ma anche perché quando i cristiani hanno chiesto di mostrare un solo caso di convertito in cambio di servizi ottenuti, i fanatici indu non sono stati capaci di trovarne uno solo. Del resto i cristiani dello stato di Orissa sono intorno al 2%; se fosse vero ciò di cui sono accusati, i cristiani sarebbero molti di più.
La ragione del loro odio anticristiano è molto più profonda.
Quale?
L’interpretazione che danno dell’induismo è da un lato nazionalista e dall’altro totalmente rigida. La prima cosa significa che tutto ciò che non appartiene alla loro nazionalità è da rifiutare; in questo nazionalismo estremo alcuni esponenti del Vishwa Hindu Parishad si rifanno addirittura al nazismo. L’interpretazione rigida della religione comporta, d’altro canto, il mantenimento della struttura di casta e, quindi, la sottomissione assoluta dei paria, cioè di coloro che si trovano al gradino più basso della scala sociale.
È chiaro che i cristiani sono malvisti. Prima di tutto sono, secondo loro, “stranieri”. Ma soprattutto, i cristiani aiutano i più deboli con scuole e strutture assistenziali, offrendo loro possibilità di elevazione sociale; vanno quindi a mettere in discussione i pilastri di una grave ingiustizia sociale, che agli estremisti indu sembra invece un caposaldo della religione.
Quindi è vero che l’origine del conflitto è religiosa?
No. È una certa interpretazione della religione. Infatti nello stesso induismo è una frangia fanatica quella che attacca i cristiani. È vero che l’induismo originale prevede la logica delle caste, per cui il paria vale meno di una mosca. Ma già all’Ottocento, anche per l’influsso dei missionari cristiani, l’induismo si è evoluto, si è ampiamente riformato. Non si può, poi, non ricordare Gandhi: pur rimanendo induista, ha fatto capire agli indiani che i paria non sono dei maledetti ma dei figli di Dio. Quindi coloro che attaccano i cristiani stanno in realtà usando della religione per coprire una inimicizia che ha motivazioni sociali.