Premio internazionale ONU per i rifugiati, Marguerite Barankitse, una donna di etnia Tutsi, ha accolto e aiutato migliaia di bambini, Hutu e Tutsi, rimasti orfani a causa della recente e tremenda guerra, ormai fortunatamente terminata, nel suo paese, il Burundi.

Signora Barankitse, lei è per la prima volta al Meeting; quali sono le sue prime impressioni?



Sono molto contenta e incoraggiata dal vedere nelle persone una sete di incontrarsi con i propri simili, di stare insieme. Questo è un esempio concreto di questa sete dell’umanità che è composta da persone che condividono le stesse convinzioni e i volti di queste persone esprimono contentezza, non sono volti tristi, e questa è una ricchezza. Nonostante le tragedie attraverso le quali è passato, pensa che anche nel suo Paese vi sia questa sete di incontrarsi, di stare insieme? Sì, abbiamo certamente ancora molti problemi, ma la popolazione vuole, ha sempre voluto, vivere insieme. La nostra guerra è stata la guerra della classe politica, la popolazione è stata coinvolta suo malgrado, sono i politici che vogliono utilizzare la popolazione per arricchirsi, per prendere il potere. Per questo io continuo a sognare, a non scoraggiarmi, e a incontrare il popolo per dir loro che devono avere il coraggio di dire no all’odio e no a una classe politica che non ha e non sa proporre alcuna visione positiva.



È molto bella questa sua decisione di continuare la sua battaglia, di cercare che il suo popolo abbandoni l’odio e torni a vivere pacificamente; tuttavia, paiono esistere divisioni reali, per esempio tra Tutsi e Hutu.

No, in realtà non c’è una vera divisione tra Hutu e Tutsi, che hanno per tanto tempo vissuto fianco a fianco, negli stessi villaggi. Parliamo la stessa lingua, vi sono molti matrimoni misti e anche le differenze somatiche, quindi, diventano meno nette. Le divisioni sono a livello politico, per la conquista del potere il quale cerca di utilizzare di volta in volta l’appartenenza regionale o etnica. La nostra guerra non è stata una guerra tra etnie, ma ha un’origine politica, è una guerra etnico-politica. Per esempio, se guardiamo agli Hutu e ai Tutsi che si vogliono mettere insieme per costituire un partito politico, si mettono sì insieme, ma vanno poi a dire alla gente che occorre riservare tot posti agli Hutu, tot ai Tutsi. Il loro interesse non è veramente per la giustizia sociale, questo maschera in realtà il desiderio di arricchirsi, e allora la società civile deve opporsi, deve impedire che la classe politica continui a mentire.



Nonostante questi problemi non indifferenti, si può comunque dire che ora la situazione è migliorata?

La situazione è migliorata nel senso che in questo momento non abbiamo più guerre e stiamo celebrando il terzo anniversario delle elezioni politiche dalle quali è nato l’attuale governo, quindi vi è speranza e io, comunque, sono sempre ottimista e sono convinta che quando le persone si mettono insieme si possono trovare le soluzioni. Ma c’è ancora molto da fare, perché la situazione del Burundi è grave. Siamo l’ultimo Paese nel mondo, i più poveri dal punto di vista materiale: il 40% di poveri e il 50% di estremamente poveri. Quindi oggi il nostro vero problema è la povertà e se la classe politica non riesce a dare prospettive positive, una speranza di recuperare la propria dignità, questi poveri saranno nuovamente spinti alla violenza.

In questa situazione cosa potrebbe fare l’Europa per aiutare il suo Paese?

La comunità internazionale e l’Occidente soprattutto, perché l’Europa è la prima “vicina” dell’Africa, devono considerare come propri i problemi dell’Africa. Quando la casa del vicino brucia, uno non può disinteressarsi, perché l’incendio finirebbe per estendersi anche alla sua casa. Per i poveri dell’Africa diventa difficile sopportare la loro povertà, la fame, quando vedono la ricchezza dell’Europa, e allora tentano di venire da voi. Si possono erigere tutti gli ostacoli, tutti i muri possibili, ma non si potranno fermare questi poveri. Paradossalmente, quindi, il problema in futuro rischia di diventare più grave per l’Europa che non per l’Africa. A meno che l’Europa si faccia carico seriamente dei problemi del nostro continente.