Sette anni di rivolgimenti epocali, in cui la storia delle relazioni internazionali ha conosciuto una cesura i cui effetti si faranno sentire a lungo. Quel giorno in cui il terrorismo globale colpì al cuore la superpotenza americana e, con essa, l’intera architettura di sicurezza occidentale pensammo alla fine di un’epoca. Ed in effetti, in questo primo scorcio di XXI secolo, stiamo riscontrando il ritorno alla politica di potenza tra Nazioni ed un radicamento identitario di matrice integralista legato a fattori etnici e religiosi. A smentire le cassandre che preconizzavano, con la caduta del Muro di Berlino, la fine della storia e della geografia, oggi tornano prepotentemente da un lato le dinamiche storiche di contrapposizione tra interessi e forze armate, dall’altro una nuova valorizzazione dei territori, con il loro corredo di risorse energetiche, culturali, economiche.
Si apre, quindi, una nuova epoca di contrapposizione tra interessi. Non cambiano essenzialmente gli obiettivi dello scontro: energia, armamenti, definizione delle aree di interesse strategico. Stanno piuttosto cambiando le modalità della competizione e, soprattutto, gli attori impegnati in questa nuova corsa. Sta terminando il “momento unipolare” degli Stati Uniti, quella circostanza irripetibile per la quale l’America è rimasta l’unica superpotenza in grado di disporre delle risorse necessarie a gestire gli affari del mondo. La transizione che è appena iniziata condurrà, invece, ad una polarizzazione più ampia degli affari globali. Stanno emergendo con forza nuovi poli strategici in grado di aggregare risorse geopolitiche e strategiche e di contare su una fondamentale solidità socio-economica. India, Cina, Russia, Brasile sono i protagonisti della nuova mappa geopolitica, che va disegnandosi attorno alle rispettive ambizioni. Queste ultime, come ben dimostra la recente crisi del Caucaso, possono arrivare a collidere, aprendo di fatto uno scontro pericoloso.
Siamo solo all’alba di questo cambiamento e c’è da sperare che esso porti ad un’arena internazionale più stabile, nella quale la interdipendenza tra interessi possa prevalere sulla contrapposizione. Perché ciò avvenga occorre innanzitutto riformare le regole del gioco della competizione globale, perché siano ben accette da tutti i “giocatori”, invogliati così a restare seduti al tavolo. Chi il tavolo vuole invece rovesciarlo è proprio il terrorismo globale, la rete del terrore che ha in mente la costruzione di un califfato islamico nell’area più popolosa del mondo, quel Medio Oriente allargato che ormai si estende, geopoliticamente, dal Marocco al Pakistan. Al-qaeda sta rapidamente cambiando strategia, dopo aver subito una sconfitta cocente in Iraq a seguito del surge deciso dall’amministrazione Bush e dal generale Petraeus. I fronti più caldi rimangono l’Afghanistan, il Maghreb ed il Libano, dove non sono da escludere nuove, clamorose azioni terroristiche.
Lo spazio occidentale, invece, è oggi più sicuro, grazie alla cooperazione tra intelligence e alla capacità di contrasto al terrorismo. Molto lavoro rimane da fare per smantellare la rete del terrore: occorre distruggerne i santuari – in buona parte concentrati in Asia Centrale -, bloccarne i finanziamenti, prevenirne gli attacchi. Ma soprattutto occorre “togliere l’acqua ai pesci”, prosciugare quel retroterra di consenso che il terrorismo ottiene soprattutto tra i più giovani e soprattutto nel mondo arabo. Serve, quindi, una nuova epoca di sviluppo e prosperità, all’interno della quale poter ricondurre e ricomporre tutte le fratture. Tutte le crisi, più o meno grandi, possono essere mediate se il contesto di riferimento è di carattere cooperativo.
La crisi nucleare iraniana, la proliferazione delle armi di distruzione di massa, le pandemie e i cambiamenti climatici possono e anzi devono essere oggetto di negoziato. Ma la diplomazia può vincere solo se le sue ragioni portano al miglioramento delle condizioni di scenario, ad un riscatto effettivo delle singole coscienze e delle condizioni di vita. A sette anni dagli attentati terroristici su New York e Washington siamo spettatori di una nuova epoca della storia. C’è da augurarsi che i diversi pezzi del puzzle si compongano in maniera pacifica e portino a condizioni di maggior benessere per tutti. Questa era la promessa della globalizzazione, i cui frutti però tardano ad arrivare.