«Nessun presidente dovrebbe mai esitare ad usare la forza, in modo unilaterale se necessario, per proteggerci quando siamo attaccati», ma anche per difendere «i nostri interessi vitali quando essi sono minacciati da vicino». Non sono parole di John McCain o di George W. Bush. Le pronunciò invece Barack Obama il 24 aprile del 2007 parlando al Council on Global Affairs di Chicago. “Minacciati da vicino” altro non è che una formulazione per dare semaforo verde allo “strike first”, quello che impropriamente si traduce con guerra preventiva. Ma al di là delle distinzioni linguistiche (in realtà sostanziali perché un conto è la preemption, un altro la prevention), l’affermazione del candidato democratico alla presidenza offre la migliore sponda per fare alcune precisazioni sulla prima intervista da candidato alla vicepresidenza che Sarah Palin ha concesso all’Abc.



Hanno destato scalpore – più al di qua dell’Atlantico che negli States in verità – alcune sue affermazioni. La prima riguarda la Dottrina Bush, la seconda le relazioni con la Russia.

L’intervistatore, il bravo ma morbido Charles Gibson, ha chiesto alla Palin se è d’accordo con la Dottrina Bush. Alla riluttanza (o incapacità) della governatrice dell’Alaska nel rispondere, Gibson ha sintetizzato, che la Dottrina Bush è il potere dell’America di attaccare un nemico prima che questi colpisca gli Usa. Una semplificazione che non tiene conto della complessità del documento sulla National Security Strategy vergato nel settembre 2002 e che certamente non può ridursi alla guerra preventiva. Il diritto allo “strike first” non è infatti un’invenzione di Bush. Esso è da sempre un elemento della dottrina di sicurezza Usa e ha la sua genesi in John Quincy Adams. Sin dalla sua fondazione gli Stati Uniti hanno legato l’espansione territoriale alla sicurezza. Con azioni di preemption gli Usa si sono assicurati nella loro storia vaste ragioni dominate da tribù indiane o da insediamenti di coloni ma anche Stati “falliti” che a causa della loro debolezza rappresentavano una costante minaccia per la stabilità dell’Unione. Nel 1898 gli Stati Uniti sferrarono un attacco preventivo per conquistare le Filippine per evitare che le mire espansionistiche di Giappone e Germania minassero l’autorità spagnola sull’arcipelago. Come ha notato il politologo di Princeton, John Ikenberry, «ogni azione di forza americana nel dopoguerra è stata frutto di preemption». Quando Obama parla di «minacce imminenti» e di dovere di proteggere la Nazione fa riferimento, consapevolmente o meno, a questa tradizione. E così ha fatto giovedì sera, Sarah Palin quando a Gibson ha risposto: «Se ci sono notizie sufficienti e legittime di intelligence che ci dicono che un attacco contro l’America è imminente, abbiamo ogni diritto di difendere il nostro Paese. E in effetti il presidente ha l’obbligo» di proteggere la nazione.



Il problema – come ha messo in evidenza la guerra in Iraq del 2003 – è la credibilità delle fonti d’intelligence. Ma non è questo il nodo della risposta della Palin. Che per quanto oggi, con la ferita irachena ancora aperta, possa apparire cinica e “guerrafondaia” a gran parte dell’opinione pubblica e dei media europei, ha solide ragioni su cui fare leva.

Che la Palin sia pronta a muovere guerra alla Russia – e siamo al secondo punto – è un’altra stonatura. Sicuramente John McCain ha una posizione più intransigente rispetto a Bush nei confronti di Mosca. Sarah Palin a Gibson ha spiegato che «se tu sei un membro della Nato e se un altro Paese è sotto attacco, sei chiamato a rispondere e ad aiutare». Una frase con una doppia ipotetica, che non fa però una piega né sul piano del diritto internazionale né sul piano logico. Perché è lo stesso Articolo 5 della Nato che dice che un attacco contro qualsiasi membro dell’Alleanza Atlantica deve essere considerato un attacco a tutti. La Nato invocò questo codice, per la prima volta nella storia, all’indomani dell’11 settembre del 2001. La Palin (e McCain) sostiene l’adesione di Ucraina e Georgia nell’Alleanza Atlantica. È chiaro che se Tbilisi fosse stata un membro Nato quando ha subito l’invasione russa, l’Articolo 5 sarebbe potuto scattare. Da qui a correre alla conclusione che la Palin è pronta a fare guerra alla Russia come taluni media hanno frettolosamente titolato il passo è quantomeno audace. Ciò che meritava invece essere evidenziato è che la visione di McCain e della Palin sulla Russia è più intransigente rispetto a quella dell’attuale inquilino della Casa Bianca. Infatti a Gibson, la candidata alla vicepresidenza ha ventilato l’ipotesi di ricorrere a sanzioni economiche e pressioni diplomatiche per indurre la Russia e più miti consigli soprattutto quando usa la sua mole (leggi esercito) contro i più piccoli Paesi democratici. E in un’ipotetica (anche se non improbabile) escalation e date alcune condizioni, gli Stati Uniti di una presidenza McCain non escludono l’uso della forza.