Qualche giorno fa, su queste pagine, si è accennato alla possibilità che ben quattro task force statunitensi si stessero concentrando nell’area del Golfo Persico. Negli stessi giorni trovava una certa diffusione il servizio del giornale olandese Telegraaf secondo cui i servizi segreti olandesi hanno dovuto interrompere un’azione di sabotaggio e ricognizione sui siti atomici iraniani per l’imminenza dell’attacco americano. Una notizia che, si badi, non ha avuto riscontri, smentite o approfondimenti, a parte un articolo di Roberto Santoro su “L’occidentale”.
Va ripetuto per l’ennesima volta che allarmi di questo tipo sono stati assai ricorrenti negli ultimi anni e che vanno verificati in modo metodico e approfondito. E’ anche vero, tuttavia, che un eventuale attacco all’Iran avrebbe modalità ben diverse dagli ultimi conflitti. Kossovo, Afghanistan e Irak furono attaccati con un preavviso più o meno lungo, fatto di ultimatum e di trattative diplomatiche e ben pochi si stupirono quando iniziarono i bombardamenti. Nel caso dell’Iran, invece, il fattore sorpresa sarà essenziale e il mondo potrebbe svegliarsi, una di queste mattine, con una nuova guerra mondiale da gestire: o no?
Quando si iniziò a pianificare un attacco mirato ai siti nucleari iraniani era ovvio che Israele avrebbe replicato il bombardamento del reattore irakeno di Osirak nel 1981. Ci si accorse ben presto che i siti iraniani erano molti, ben difesi, difficili da colpire e con alcuni “siti civetta”. Era perciò necessario un attacco combinato, anche con forze speciali destinate a conquistare e demolire tali siti. L’intervento americano era, quindi, inevitabile e, nel 2005 e nel 2006, venne pianificata una serie di attacchi su larga scala, tesi a colpire non solo le installazioni nucleari (Natanz, Busher e altre ancora) ma le basi delle Guardie della Rivoluzione. Sono esse, infatti, a tenere sotto controllo il paese e la neutralizzazione del loro potenziale militare potrebbe avviare quel cambio di regime così spesso auspicato. A parte il fatto che gli obbiettivi da colpire, in tal modo, sono passati dai quattrocento iniziali ai duemila dell’ottobre 2007, resta l’altissima probabilità di un coinvolgimento della popolazione civile. Ebbene, nella guerra fra Iran e Irak, il bombardamento delle città da parte dell’aviazione di Saddam Hussein ridestò il patriottismo degli iraniani, portandoli a schierarsi a fianco di un regime che, in una democrazia normale, non durerebbe una settimana. I rischi di un attacco sono enormi: blocco dello stretto di Hormuz, guerra di posizione e di logoramento ai confini con Irak e Afghanistan (si pensi al tracollo che subirebbe la NATO in una simile situazione) possibile coinvolgimento della Russia nel conflitto. Una eventuale sconfitta ( o mancata vittoria) americana avrebbe riflessi epocali, data la nota incapacità europea di sopportare “sangue, sudore e lacrime” per dirla alla Churchill.
La posta in gioco è, tuttavia, altissima poiché la centrale di Busher diventerà pienamente operativa in primavera. Sulla “Stampa” di ieri (15 settembre 2008) Maurizio Molinari riferisce di un dossier che sta circolando presso i servizi segreti occidentali e che tratta di un “Piano 111” approvato dall’ayatollah Khamenei in persona. Si tratterebbe di fingere un guasto alla centrale per procedere a una produzione clandestina di plutonio tale da ottenere 120 kg di plutonio, equivalenti a 15 testate nucleari. Il tutto in due mesi. Va da sé che, una volta ottenuto il materiale, esso dovrebbe essere weaponizzato ma diventerebbe molto più difficile distruggerlo. Inoltre i tempi si sono ulteriormente ridotti a causa dell’imminente fornitura di sistemi antiaerei russi di ultima generazione, rendendo molto più difficili e costose in termini di perdite eventuali attacchi aerei.
In questo frattempo continua una campagna elettorale americana durissima e senza esclusione di colpi come è nella tradizione. Il candidato repubblicano Mc Cain appare, per la prima volta, in lievissimo vantaggio ma si sa che ciò che conta è il numero dei voti elettorali, come ben sa George W. Bush che vinse le elezioni nel 2000 ottenendo meno voti di Al Gore. Poiché Bush è il capo delle forze armate con pieni poteri, potrebbe decidere l’attacco per due motivi: a) concludere il proprio mandato con una mossa decisiva che imprima una svolta alla guerra al terrore che ha dominato la sua doppia presidenza; b) mettere di fronte al fatto compiuto un Barack Obama neoeletto. L’incompetenza del candidato democratico in materia internazionale è un fatto notorio. Mai che ne abbia azzeccata una, dall’auspicato ritiro americano dall’Irak (dove la strategia di Petraeus si è rivelata vincente) alla risposta alla crisi georgiana. Paradossalmente Bush potrebbe decidere di lasciare la decisione dell’attacco a Mc Cain solo se questi fosse largamente in testa nei sondaggi; oppure, come è più probabile, attuare quella che nel linguaggio politico americano viene chiamata “October surprise” e cioè un’iniziativa politica o militare attuata immediatamente a ridosso del voto di novembre.
Come si è detto, un attacco improvviso e di ampie proporzioni potrebbe avere effetti catastrofici. Il problema, allora, è come ridurre l’azzardo, riducendone gli effetti negativi sia politici che economici. Per l’opinione pubblica mondiale, dai tempi della Grande Guerra ad oggi, ha sempre avuto grande rilevanza chi fosse stato a sparare il primo colpo. Un attacco preventivo israeliano o americano, come è stato fatto con l’Irak di Saddam Hussein nel 2003 sarebbe squalificante, addirittura disastroso. Ma se il primo colpo fosse tirato da una motovedetta o da un sommergibile iraniano contro una nave americana nel Golfo la questione sarebbe ben diversa e non è nemmeno il caso di ricorrere a un nuovo “incidente del Tonchino” dove rilevamenti incerti di un attacco nordvietnamita alla cacciatorpediniere Maddox furono adottati come “casus belli” per l’intervento in Vietnam. Basterà attuare un blocco navale sulle coste iraniane per scatenare un attacco, anche perché il blocco viene equiparato a un atto di guerra. La base giuridica per il blocco navale sarà una risoluzione del Consiglio di sicurezza che non passerà per il veto russo-cinese ma, con l’appoggio di Inghilterra e Francia e della maggioranza dei membri del consiglio, potrebbe dare una legittimità che l’attacco all’Irak nel 2003 non ebbe mai.
Perché la differenza è questa: che nella flotta diretta verso il Golfo vi sono anche componenti aeronavali anglo-francesi e la stessa NATO, per bocca del suo segretario, l’olandese De Hoop Scheffer vede come reale la minaccia missilistica iraniana. Va altresì notato che l’esercitazione “Brimstone”, svoltasi nel Nord Atlantico davanti alle coste americane ricorda quella avvenuta nelle stesse acque nell’estate del 1997, il cui resoconto si trova in “Fortezze dei mari” di Tom Clancy, un volume dedicato alle operazioni delle portaerei nucleari statunitensi (Mondadori 2000). Lo scenario di quell’esercitazione JTFEX 97 (Joint Task Force Exercise 1997) trasse spunto dall’invasione del Kuwait e le coste della Virginia, del North Carolina e South Carolina furono riadattate elettronicamente, creando una serie di zone di “non navigazione”, determinando un campo di battaglia simile al Golfo Persico. Iniziata il 17 agosto 1997, l’esercitazione durò due settimane e la Task Force che faceva capo alla portaerei George Washington varcò lo stretto di Hormuz il 21 novembre per operare contro l’Irak. Si può dunque ipotizzare che parte della flotta che ha eseguito la Brimstone possa essere in zona per fine ottobre ed essere in grado non solo di attaccare l’Iran ma di impedire il blocco dello stretto di Hormuz. In questo lasso di tempo verrebbe operata l’offensiva diplomatica alle Nazioni Unite. I tempi di realizzazione potrebbero essere più o meno questi. Resta da vedere quali e quanti siano gli indici presuntivi dell’avvicinarsi di un’offensiva di questo tipo: argomento che sarà oggetto di un prossimo articolo.