Viviamo percorrendo spesso un itinerario costellato di luoghi comuni, di giudizi scontati o improvvisati o inventati a seconda delle occasioni, inutili comunque, incapaci di attraversare con la profondità dello sguardo le forme del paesaggio che ci vengono incontro.

I recenti avvenimenti della Cina, ai quali la stampa nazionale e internazionale ha dato notevole risalto: il terremoto nella provincia dello Sichuan del maggio scorso con oltre 90.000 morti, le Olimpiadi di Pechino di Agosto 2008 e l’ulteriore scossa di terremoto del 20 agosto scorso nella Cina meridionale al confine con la Birmania, sono un esempio di come, attraverso la diffusione di notizie, sia possibile innescare giudizi, più o meno centrati, o, addirittura ricostruire gli eventi, dopandoli opportunamente a seconda delle tesi che si intendono sostenere.



In particolare, qualunque evento accada in quell’immenso territorio denominato Cina, è letto, ovviamente, attraverso la lente di chi guarda e che considera la propria dimensione culturale e il proprio modo di concepire la vita prevalenti rispetto a quella di qualunque altro popolo. L’opinione pubblica, guidata sapientemente dai giornali e dalle televisioni, partecipa alle notizie con un senso di smarrimento o di paura o di stupore, ma, soprattutto, identificandosi nel bisogno, di derivazione “dipietristica”, di accusare qualcuno, di presumere di conoscere ciò che è giusto o sbagliato, di sapere esattamente quali siano i parametri corretti per affermare ciò che sarebbe dovuto accadere: la piena espressione della democrazia, la libertà, la dignità sul lavoro, ecc.



Parole, forse, nemmeno mormorate, ma sicuramente pre-memorizzate in qualche anfratto dell’ipofisi anestetizzata alla base del cranio. Perciò la valutazione di quanto accade in Cina ha, quasi sempre, una griglia interpretativa tale da far apparire negativo qualunque elemento venga preso in considerazione. In questa fase storica, caratterizzata da un disastro finanziario mondiale, persino la stima sull’andamento positivo del PIL cinese rispetto al mondo intero produce riscontri negativi: si osserva, infatti, e giustamente, che il successo economico e finanziario della Cina pesa sulle fatiche di milioni di esseri umani che lavorano, molto spesso sotto costrizione, senza ricevere in cambio alcun beneficio economico o, talora, con un modestissimo compenso.



Chi ha sperimentato qualche frammento di vita in Cina sa bene che tutto quanto espresso qui sopra corrisponde a verità oggettive. Ma qualche elemento positivo sembra profilarsi, anche se purtroppo non viene considerato dai media. Ad esempio milioni di giovani, in precedenza abbandonati all’inedia di una vita passiva, oggi sono “arruolati” nelle fabbriche dove non esiste alcun livello di sicurezza e dove, tuttavia, possono almeno disporre del vitto quotidiano, di una divisa per coprirsi e un giaciglio su cui riposarsi la notte. In generale, il popolo cinese, da circa quindici anni a questa parte, ha persino il diritto di diventare ricco. I recenti terremoti in Cina hanno messo in luce carenze impressionanti, sia nell’organizzazione degli aiuti umanitari, sia nelle modalità di costruzione di edifici anche di data recente. L’Amministrazione centrale si è premurata di far circolare ben presto una presentazione in power point per dimostrare la pronta partecipazione delle autorità centrali alla tragedia del popolo cinese. I cataclismi tracciano spesso la soglia tra la sicurezza e l’accuratezza delle costruzioni e delle strutture più importanti e l’imbroglio improvvido di chi si ritiene immune da qualunque forma di moralità. Ora c’è da chiedersi: fino a che punto è possibile giudicare la realtà a partire da criteri valutativi esterni ad essa, senza cadere nel relativismo? Che cosa è dunque la realtà se non l’insieme di relazioni che si evolvono nel tempo e nello spazio e si proiettano negli eventi e nei paesaggi quotidiani, di cui noi, se educati solo dai media, a mala pena, scorgiamo qualche incerto particolare.

È indubbio che per noi europei o americani, la libertà, con tutta la sua complessità di espressione, è ciò a cui teniamo, soprattutto per noi e, magari anche per gli altri, ma, in nome di questo bene così prezioso, saremmo poi così favorevoli a ripetere l’esperimento del Vietnam e dell’Iraq per esportare democrazia e libertà in Cina? Mi permetto di suggerire che può esistere una modalità diversa di leggere e di interpretare la realtà: la libertà infatti, non è solo un’istituzione, che, una volta realizzata, garantisce il benessere comune.

La libertà è, soprattutto, l’appartenenza alla verità della vita di ognuno di noi, come del pianeta e dell’universo intero. Sostenere, anche con manifestazioni pubbliche, il diritto alla libertà di espressione dei monaci tibetani e del popolo cinese tutto, è un gesto di solidarietà importante, addirittura fondamentale per la dignità di noi esseri liberi.

Ciò che, invece, rende letteralmente odiosa la posizione libertaria di molto giornalismo manieristico è l’atteggiamento di chi, senza capire le dinamiche storiche dei fatti, senza avere mai sperimentato per sé che cosa significhi essere liberi, riflette, come uno specchio deformato, giudizi e accuse contro il male che, oggettivamente è vigente nell’enorme potere della classe dominante in Cina, senza avvertirne la presenza in ognuno di noi.